giovedì 21 luglio 2011

Nel ghetto dei rifugiati

Le guerre che insanguinano l'Africa sono cosi' tante che si rischia di perderne il conto. E la memoria. Dal nord al sud del continente nero, dalla Libia allo Zimbabwe passando per Malawi e Nigeria, i bollettini di morti e feriti si distribuiscono equamente fra le diverse latitudini. Difficile trovare le notizie, ancora piu' arduo (e soprattutto scomodo) indagare sulle responsabilita', che spesso e volentieri hanno a che fare con gli interessi economici delle nostre multinazionali. Fra le pochissime nazioni risparmiate da questa mattanza c'e' proprio il Ghana: oasi di pace e di democrazia che proprio per questo rappresenta la meta perenne dei rifugiati dei paesi vicini. L'ultima ondata biblica e' arrivata dalla Costa d'Avorio, 5 mesi fa, sugli sviluppi delle solite elezioni contestate e poi degenerate in guerra civile. La regione di Beyin al confine ivoriano ci e' vicinissima. Cosi' i contraccolpi dovuti ai disordini della vicina Abuja sono ancora visibili a occhio nudo. Stamattina ho fatto capolino in una mega tendopoli di 6mila profughi, allestita dall'Onu e dal governo ghanese nel corso dell'ultima emergenza. I volontari della Caritas mi raccontano di una comunita' che in assenza di moneta circolante si sta inventando un nuovo modus vivendi basato sullo scambio di servizi. Dentro un paese di 6mila abitanti, in effetti, i mestieri si trovano tutti. Intravedo dei tendoni speciali dove i profughi-insegnanti si sono attrezzati per metttere su insieme al personale dell'Onu una specie di scuola per i bambini del campo. Si prova a tirare avanti, a mettersi la guerra alle spalle. Ma ricominciare a vivere non e' facile. In queste tende abita gente straziata dal dolore: mariti che hanno perso mogli, mamme private dei loro figli. "Distribuiamo cibo, garantiamo i servizi igienici e sanitari - mi spiega il Bertolaso nero della situazione - ma ci stiamo anche attrezzando per trasformare la tendopoli in un insediamento a lungo termine".
Ed e' proprio questo il guaio. Trasformare l'emergenza in normalita' vuol dire condannare questi fuggiaschi all'emarginazione. Per rendersene conto basta rivolgersi (pochi chilometri piu' in la') al villaggio profughi di piu' antica fondazione, nato nel 1990 in occasione della guerra civile in Liberia e poi lievitato negli anni successivi, accogliendo fra le sue baracche gli scampati da Darfur, Somalia, Kenya e infinite altre polveriere. "Le nostre provenienze sono cosi' disparate che la lingua del campo e' diventata l'inglese, come in ogni comunita' internazionale che si rispetti", ironizza il gentilissimo Keita, ivoriano scappato dal suo paese in un focolaio di guerra precedente. Keita mi riassume i suoi studi in relazioni internazionali in Costa d'Avorio e poi a Strasburgo e Firenze. E nel frattempo mi fa strada nella baracca di canne e lamiera dove vive la sua famiglia. Sua moglie Roceline, maestra togolese scappata anch'essa da una guerra che le ha rubato il padre, mi fa accomodare riempiendomi di feste e premure. Al centro della baracca troneggia una lavagna vera, da aula scolastica, con cui Roceline fa lezione alle sue due bambine piccole. "Cosi' alle elementari partiranno avvantaggiate", mi sorride presentandomele. Perfino i due gattini domestici mi si fanno incontro intraprendenti. Mi domando come faccia a meritarmi tutta questa confidenza immediata. Hanno perfino la tv sintonizzata su Al Jazeera English, il mio canale preferito. Saranno mica telepatici? Ma intanto la presentazione dei pargoli nati nel campo profughi non e' finita. "Abbiamo anche i due piu' grandicelli che ora sono a scuola, e poi il maggiore, che siamo riusciti a mandare a studiare in Canada dallo zio. Sta diventando un giocatore di basket professionista, ma ormai sono anni che non lo vediamo". L'obiettivo di Roceline e Keita e' di seguire in blocco la scia di proprio figlio, trasferendo in Canada baracca e burattini. "Qui al villaggio la vita e' difficilissima". E per capirlo non c'e' bisogno di spiegazioni. Far fronte alla stagione delle piogge in questa catapecchia dev'essere disumano. "Nel 2008 ci entro' l'acqua in casa".Senza contare l'assenza quasi totale di negozi, di scuole superiori, di istituzioni. "Dopo le medie la maggior parte dei ragazzi del villaggio abbandona perche' lo stato ghanese , una volta superati i 14 anni, interrompe il programma di sostegno allo studio. Cosi' la disoccupazione e' dilagante. Anche io pur essendo una insegnante bilingue non riesco a trovare lavoro", allarga le braccia Roceline, asciugandosi le lacrime di dolore e di rabbia. "I ghanesi del villaggio vicino di Eqwe ci vogliono tenere isolati in questa terra di nessuno. E' una vergogna". La loro indignazione diventa anche la mia. Ma in fondo la scuola di Beyin non e' affatto lontana. Bisogna dire a padre Raphael che abbiamo pronta una nuova insegnante di francese...

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