martedì 26 luglio 2011

La vita dopo il petrolio

                                   
Appena tornato dal Ghana e dai suoi sogni di gloria petroliferi, mi imbatto in un articolo di Al Jazeera che proprio sul petrolio si focalizza. Il titolo recita "La maledizione del picco del petrolio". Il picco è un termine tecnico con cui gli scenziati della terra hanno definito una data spartiacque: il giorno in cui la produzione massima possibile di petrolio sarà raggiunta; il giorno a partire dal quale il numero di barili estratti ogni 24 ore inizierà gradatamente a calare; piano piano, in discesa, verso l'apocalittico livello zero. Il picco, in pratica, significa l'accensione della spia di riserva nel serbatoio dell'oro nero mondiale. A partire dal picco i prezzi del petrolio e dei suoi derivati cominceranno a salire a ritmi sempre più vertiginosi, rendendo benzina e gasolio sempre più beni di lusso. Sempre più fuori dal nostro potere d'acquisto.
I massimi esperti in materia si stanno appunto confrontando per stabilire le esatte coordinate temporali del temutissimo picco. C'è addirittura chi dice che lo abbiamo già passato, chi pensa che il momento è esattamente ora, fino ai più baldanzosi che spingono il livello massimo di produzione nel "lontano" 2020. Il dibattito è aperto. Intanto, però, ci sono i dati reali: quelli relativi ai volumi di petrolio estratti negli ultimi anni. Ebbene, i numeri dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (massima autorità in materia nel mondo occidentale) dicono che dal 2006 a oggi il livello di produzione è rimasto pressochè stazionario. Quindi già da un pezzo non si parla più di salita. Semmai di falsopiano: anticamera di una discesa sempre più difficile da esorcizzare. Anche perché nel frattempo la domanda, trainata dalle nuove locomotive della crescita India e Cina, continua a galoppare: l'aumento del consumo di petrolio dal 1994 al 2006 è stato in media del 2% annuo (sempre dati Aie), e pure le previsioni per il 2011 e il 2012 fanno registrare aumenti dello stesso tenore. Ancora uno studio dell'Aie stima che per tenere il passo a questi aumenti costanti di domanda (combinati col graduale prosciugamento dei pozzi oggi esistenti) ci vorrebbe una nuova Arabia Saudita da scoprire ogni 4 anni.
Insomma, sono tante, autorevoli e tutte credibili le voci a sostegno di un passaggio storico epocale entro lo spazio di un decennio. Il 2020 incombe come l'inizio di una nuova era in cui si dovrà imparare a fare a meno del dio petrolio. Cominciando dai trasporti, il settore dove la nostra dipendenza dall'oro nero è particolarmente marcata. Negli Stati Uniti, per esempio, oggi il petrolio serve ad alimentare il 69% degli spostamenti di persone e merci. "Suggerisco alla gente di andare sul loro sito internet preferito per prenotare viaggi aerei - argomenta sarcasticamente Anthony Perl, direttore del programma studi urbani all'università canadese di Vancouver -: fate caso alla tariffa di businness class, perché a breve diventerà quello il prezzo standard per viaggiare". Forse la generazione Ryanair ha i mesi contati, o forse l'avvento dell'auto elettrica riuscirà a non intaccare il nostro stile di vita. Certo è che, anche nel caso di un lungo periodo di austerity, non tutti i mali verrebbero per nuocere. La chiusura del rubinetto del distributore potrebbe costringerci a riscoprire un modo di muoverci più ecologicamente e socialmente sostenibile: come le macchine al completo con 5 passeggeri a bordo, invece del solito e triste guidatore solitario; e poi i pullman, i treni, le biciclette, o il carosello di furgoni collettivi "ghanesi" a tutte le ore del giorno e della notte. Inoltre, l'incidenza sempre maggiore dei costi di trasporto sul prezzo delle merci potrebbe spronarci a credere una volta per tutte nelle virtù della filiera corta. Oggi comprare dal contadino è una pratica di nicchia. Domani chissà. Io penso positivo.   
http://english.aljazeera.net/indepth/features/2011/07/201172081613634207.html

venerdì 22 luglio 2011

Rassegna stampa

Dopo due settimane di lontananza si comincia a pensare alle cose dell'Italia che ti mancano di piu'. E nella mia top list della nostalgia, un posto d'onore e' riservato di diritto alla carta stampata. Non vedo l'ora di farne incetta, domattina, una volta sbarcato a Fiumicino. Brioche, cappuccino, Repubblica, Sole, Gazzetta, e magari se ho fortuna pesco anche un Secolo di Genova. Quaggiu' in Ghana per combattere la crisi di astinenza mi sono rifugiato sui giornali locali, in primis il Daily Graphic, che dicono sia il quotidiano piu' diffuso e piu' curato. Intendiamoci, soddisfazione nemmeno lontanamente paragonabile alla lettura dei media di casa nostra. Pero' devo comunque dirgli grazie, al Daily Graphic degli ultimi giorni, perche' mi ha aiutato a capire alcune sfumature preziose di questo paese per me ancora tutto da scoprire. Cerchero' di farvi una rapida carrellata delle cose piu' interessanti che ho imparato.
La politica come sempre occupa una fetta preponderante - e forse un tantino esagerata - dell'intera foliazione. Su questa egemonia ha influito il fatto che proprio 2 settimane fa il Partito Democratico al governo ha riunito il suo congresso per eleggere il candidato delle elezioni presidenziali del prossimo anno. Ha stravinto l'attuale presidente  John Atta Mills, che con una percentuale bulgara (97%) ha zittito le velleita' di Nana Konadu Rawling, gia' first lady di un passato presidente del Ghana. Vittorie cosi' schiaccianti lasciano un retrogusto amaro a chiunque si trovi a commentarle: il pluralismo e' un'altra cosa. In compenso va precisato che Atta Mills e' il presidente in carica, e fino a oggi l'usanza ghanese (e non solo, basta guardare per esempio agli Usa) era stata quella di non mettere mai in discussione la ricandidatura per un secondo mandato di un presidente in carica. Un ulteriore passo avanti per la democrazia ghanese potrebbe essere l'avvento delle primarie, al momento fuori dall'agenda delle riforme intra-partitiche (sia del partito democratico sia del partito patriottico). Come pure l'introduzione delle elezioni regionali e amministrative, che in Ghana a oggi non esistono: governatori e consiglieri locali sono dal primo all'ultimo nominati dalle autorita' centrali di Accra. Sarebbe, quello delle elezioni locali, una carta importante da giocare nel tentativo di rendere gli amministratori locali piu' vicini e piu' riconosciuti dai cittadini: al momento e' molto forte la concorrenza dei capivillaggio dinastici, autorita' tradizionali che non ricevono dallo stato soldi da spendere ne' vantano poteri impositivi, ma sono comunque molto ascoltati dal popolino, e quindi capaci di condizionare e non poco la cosa pubblica.
Fra i temi sociali piu' sentiti, l'omosessualita' e' quello che piu' mi ha colpito. Mi ha colpito per il modo virulento con cui gay e lesbiche sono attaccati, quasi all'unanimita', dall'opinione pubblica: a parlare di omosessuali come "problema da estirpare" ed "esempio immorale" e' stato lo stesso presidente Atta Mills, pungolato dagli esponenti religiosi di varie chiese, che qui in Ghana (dove la gente a messa ci va eccome) sono seguiti acriticamente. La strada verso la fine della discriminazione sembra ancora lunghissima.
Nella pagina delle lettere si parla spesso di ambiente. C'e' il problema annoso delle discariche (ogni mondo e' paese...) che spesso crescono nel pieno dei centri abitati e devono supplire all'assenza della rete fognaria, diventando cosi' dei giganteschi ricettacoli di escrementi umani. Comprensibile il tono esasperato degli interventi dei lettori. L'introduzione della raccolta differenziata e di un servizio capillare di nettezza urbana da queste parti sono ancora progetti a lungo termine. I cittadini, come la famiglia di Raphael a Beyin, sono spesso costretti a disfarsi dell'immondizia accendendo dei roghi "camorristici" dietro casa. Pero' qualcosa sta cominciando a muoversi, almeno a livello di consapevolezza pubblica. In un bell'articolo di ieri si parlava della vergogna delle bustine di acqua minerale (il corrispondente ghanese delle bottigliette da mezzo litro) lasciate dappertutto a violentare il paesaggio, e dell'importanza del fattore culturale come chiave di volta per debellare il menefreghismo sistematico di chi sporca.
Le inserzioni pubblicitarie vedono le compagnie di telefoni cellulari a recitare la parte del leone. A livello di tecnologie, se c'e' un settore dove la lontananza dall'Italia si avverte meno, quello e' la telefonia. Ho visto un sacco di gente ghanese con un telefonino piu' bello e piu' nuovo del mio. Anche in Ghana, come in Italia, vanno per la maggiore le offerte speciali con cui le compagnie si contendono la vastissima clientela. Tanti commercianti utilizzano anche il cellulare come mezzo di pagamento virtuale, in attesa dell'avvento dei computer nelle case e del commercio elettronico alla portata di tutti.
Infine, la bella notizia. L'azienda nazionale di autobus interurbani ha pubblicato un nuovo bando di assunzione per 100 autisti, con un requisito importante: si accettano solo candidate donne. La scelta risponde a precise esigenze di poltica industriale. Durante un'indagine sugli incidenti degli ultimi anni che avevano visto coinvolti i loro autobus, il management aveva notato che dei vari sinistri nemmeno uno era stato commesso dalle 24 autiste donne gia' al momento impiegate. Da qui la deduzione statistica: alla faccia degli stereotipi, le donne guidano molto meglio degli uomini. Piu' prudenti, piu' concentrate, piu' affidabili. Il Ghana da oggi le vuole padrone della strada.         

giovedì 21 luglio 2011

La citta' dell'oro (nero)

C'era una volta una anonima citta' di porto del golfo di Guinea. Gia', una volta. Perche' da una manciata di anni a questa parte la musica non e' piu' la stessa. Dal 2007, per la precisione, quando in mezzo al mare, 150 km a largo della stessa citta', le sonde dei cercatori di petrolio fecero bingo. Una scoperta importante, un giacimento di prima grandezza. E fu cosi' che il nome di Takoradi comincio' ad entrare negli atlanti che contano, e non solo: anche sulla bocca degli analisti finanziari, nella lista della spesa dei piu' importanti colossi energetici, al centro dei sogni di politici, ingegneri e comuni mortali del nord, del centro e del sud del Ghana.
Al sogno mirabolante non e' seguito un brusco risveglio. Tutt'altro. Lo stato ghanese e' entrato in societa' con tre compagnie petrolifere e ha fatto partire i lavori in mare aperto. A tempo di record sono state allestite le piattaforme di supporto ai pozzi petroliferi, e a novembre 2010 il primo barile di petrolio ghanese ha visto la luce. Il sogno, insomma, sta mettendo radici profonde. E molto lucrative. Il governo di Accra nella gestione del tesoretto pare aver dimostrato tutto il suo patrimonio di maturita' e scaltrezza che lo differenzia da altri paesi africani (come la Nigeria) ricchi si' di petrolio ma non di petroldollari. Il Ghana ha dato il benvenuto alle compagnie petrolifere, depositarie del necessario know-out, ma allo stesso tempo nei contratti di partnership si e' assicurato piu' del 50% delle future entrate. Proprio a fine anno arrivera' nelle casse dello stato il primo assegno di 500 milioni di dollari. Ma siamo ancora lontani dalla produzione a pieno regime, e nel frattempo le esplorazioni continuano. Gli esperti prevedono che il bengodi del petrolio di Takoradi possa durare per piu' di 20 anni, portando complessivamente in dote alla pubblica amministrazione la bellezza di 40 miliardi di dollari. Una somma considerevole gia' ai fini di una manovra tremontiana. Figuriamoci per uno stato come il Ghana, dove il costo della vita e' la meta' che da noi, quindi quei soldi e' come se fossero il doppio. Se allora il governo sapra' investire a ragion veduta nei settori chiave dello sviluppo (dall'educazione alla salute alla ricerca ai trasporti pubblici), il bonus dell'oro nero potra' rivelarsi un potente moltiplicatore di benessere. Altrimenti, se a prevalere fossero la corruzione e le logiche spartitorie, una colossale opportunita' andrebbe sprecata.
La storia emettera' i suoi verdetti. Nel frattempo la societa' ghanese, e in particolare gli abitanti di Takoradi, stanno alla finestra. E alzano gli occhi al cielo ogni volta che un elicottero si libra in cielo: "vedi gli elicotteri gialli? - mi indica un tassista - fanno su e giu' per trasportare gli addetti fino alla piattaforma petrolifera in mezzo al mare". Quando dico al driver di lasciarmi giusto davanti alla sede della Tullow Oil (la compagnia britannica in prima linea nei lavori di estrazione per conto del governo) lui non si sorprende: "I bianchi vogliono andare tutti li'". Gli uffici della multinazionale del petrolio in effetti sembrano una specie di ambasciata dell'occidente in territorio straniero. Le macchine nel parcheggio sono tutte fuoriserie fiammanti. E le misure di sicurezza fanno girare la testa: vigilantes a grappoli, portineria, sbarramento, seconda portineria, altro sbarramento. Mi fanno riempire un modulo, mi mettono al collo un tesserino di riconoscimento, mi lasciano a bagnomaria in una sala d'aspetto con tv al plasma sintonizzata sulla Bbc. Poi arriva un ragazzo ghanese della mia eta' con la divisa aziendale e un sorriso affabile. Mi porta in una saletta e ascolta le mie richieste. Si presenta velocemente, mi parla del suo periodo di studio a Manchester e della sua grande occasione alla Tullow, che l'ha sospinto da una regione rurale dell'ovest fino a Takoradi. Mi precisa pero' che lui lavora nel ramo businness, mentre gli unici autorizzati a rilasciare interviste sono quelli dell'area comunicazione. Mi scrive il nome del responsabile relazioni esterne, accennandomi che in questo momento sta partecipando a un convegno in un albergo di lusso in riva al mare. "Se hai fortuna riesci a farci una chiacchierata nella pausa pranzo". Non ho niente da perdere e non ho altro da fare. Cosi' decido che la mia caccia all'addetto stampa puo' cominciare. 
Altro taxi, altro quartiere. Dalla zona industriale passo a quella residenziale, coi villoni e con gli hotel da 4 stelle in su. Gli alberghi sono tantissimi, e nel frattempo mi sono dimenticato il nome di quello della conferenza. Ci vogliono 4 tentativi a vuoto e l'assist decisivo di una guardia privata in motocicletta (con tanto di passaggio scroccato senza casco) per arrivare finalmente a destinazione. Il piazzale dell'hotel Raybow e' tappezzato di bandiere ghanesi  e militari in servizio: c'e' un puzzo di politici da far spavento. Le hostess strafighe consegnano gadget ai partecipanti sulla soglia della conference hall. All'interno (vedi foto) la sala e' gremita: tanti giornalisti, altrettanti bellimbusti e anche parecchi white men come me. Aveva ragione il tassista.
Il convegno volge al termine, e l'intervento conclusivo spetta alla ministro dell'ambiente, il cui discorso e' anticipato da un pacchianissimo stacchetto di trombe. I soliti applausi inondano la solita fiera delle buone intenzioni: il petrolio grande opportunita' di sviluppo, la valorizzazione dell'ambiente costiero come principale voce di utilizzo delle entrate petrolifere, eccetera, eccetera, eccetera. Tempo poco e arriva il momento piu' atteso da tutti i convenuti: il pranzo luculliano a  bordo piscina. Una banda di bonghisti ravviva l'atmosfera mentre una pletora di camerieri si prepara a cannoneggiare di portate le decine di convegnisti. Io mi lancio su una delle hostess strafighe mostrandogli il bigliettino col nome del mio uomo. Il gioco e' fatto. Un tipo da spiaggia con collanone d'oro e tunica amaranto mi si para davanti all'improvviso. "Kennedy Nunoo, nice to meet you". E' lui. Mi concede un quarto d'ora. Io gli chiedo se il disastro ecologico della piattaforma petrolifera off-shore in Louisiana lo scorso anno non ha mandato un messaggio sinistro anche a loro. Lui risponde ribaltando la frittata: "Da quella vicenda abbiamo ricavato delle lezioni utili. E poi avere i pozzi lontano dalla costa ha dei vantaggi importanti. Per esempio non c'e' il rischio delle operazioni di sabotaggio in stile Nigeria". E coi pescatori come la mettiamo? "La piattaforma e' talmente lontana da Takoradi che le nostre attivita' non entreranno in collisione con la gittata dei piccoli pescherecci di qui". Sara'. Ma la notizia che il signor Nunoo tiene a sottolineare e' un'altra. "La Tullow Oil crede cosi' tanto nel rapporto con questo paese che ha deciso di aprire una filiale ghanese della compagnia, quotata alla Borsa di Accra a partire da fine mese". Notiziona che a me sinceramente interessava il giusto. Piu' che al ritorno economico per gli azionisti della Tullow o al numero di barili estratti giornalmente, infatti, il popolo preferisce pensare ai chilometri di nuove strade, ferrovie e fognature al servizio di citta' e villaggi; alla qualita' dell'acqua del mare di Takoradi e al mantenimento della sua fauna ittica; alle nuove possibilita' di spesa dello stato e all'implementazione di nuove politiche sociali, sanitarie e del lavoro; cosi' da spargere i dividendi petroliferi fin nei meandri piu' sperduti della nazione. La partita piu' importante e' appena cominciata. In bocca al lupo, Ghana.  

Nel ghetto dei rifugiati

Le guerre che insanguinano l'Africa sono cosi' tante che si rischia di perderne il conto. E la memoria. Dal nord al sud del continente nero, dalla Libia allo Zimbabwe passando per Malawi e Nigeria, i bollettini di morti e feriti si distribuiscono equamente fra le diverse latitudini. Difficile trovare le notizie, ancora piu' arduo (e soprattutto scomodo) indagare sulle responsabilita', che spesso e volentieri hanno a che fare con gli interessi economici delle nostre multinazionali. Fra le pochissime nazioni risparmiate da questa mattanza c'e' proprio il Ghana: oasi di pace e di democrazia che proprio per questo rappresenta la meta perenne dei rifugiati dei paesi vicini. L'ultima ondata biblica e' arrivata dalla Costa d'Avorio, 5 mesi fa, sugli sviluppi delle solite elezioni contestate e poi degenerate in guerra civile. La regione di Beyin al confine ivoriano ci e' vicinissima. Cosi' i contraccolpi dovuti ai disordini della vicina Abuja sono ancora visibili a occhio nudo. Stamattina ho fatto capolino in una mega tendopoli di 6mila profughi, allestita dall'Onu e dal governo ghanese nel corso dell'ultima emergenza. I volontari della Caritas mi raccontano di una comunita' che in assenza di moneta circolante si sta inventando un nuovo modus vivendi basato sullo scambio di servizi. Dentro un paese di 6mila abitanti, in effetti, i mestieri si trovano tutti. Intravedo dei tendoni speciali dove i profughi-insegnanti si sono attrezzati per metttere su insieme al personale dell'Onu una specie di scuola per i bambini del campo. Si prova a tirare avanti, a mettersi la guerra alle spalle. Ma ricominciare a vivere non e' facile. In queste tende abita gente straziata dal dolore: mariti che hanno perso mogli, mamme private dei loro figli. "Distribuiamo cibo, garantiamo i servizi igienici e sanitari - mi spiega il Bertolaso nero della situazione - ma ci stiamo anche attrezzando per trasformare la tendopoli in un insediamento a lungo termine".
Ed e' proprio questo il guaio. Trasformare l'emergenza in normalita' vuol dire condannare questi fuggiaschi all'emarginazione. Per rendersene conto basta rivolgersi (pochi chilometri piu' in la') al villaggio profughi di piu' antica fondazione, nato nel 1990 in occasione della guerra civile in Liberia e poi lievitato negli anni successivi, accogliendo fra le sue baracche gli scampati da Darfur, Somalia, Kenya e infinite altre polveriere. "Le nostre provenienze sono cosi' disparate che la lingua del campo e' diventata l'inglese, come in ogni comunita' internazionale che si rispetti", ironizza il gentilissimo Keita, ivoriano scappato dal suo paese in un focolaio di guerra precedente. Keita mi riassume i suoi studi in relazioni internazionali in Costa d'Avorio e poi a Strasburgo e Firenze. E nel frattempo mi fa strada nella baracca di canne e lamiera dove vive la sua famiglia. Sua moglie Roceline, maestra togolese scappata anch'essa da una guerra che le ha rubato il padre, mi fa accomodare riempiendomi di feste e premure. Al centro della baracca troneggia una lavagna vera, da aula scolastica, con cui Roceline fa lezione alle sue due bambine piccole. "Cosi' alle elementari partiranno avvantaggiate", mi sorride presentandomele. Perfino i due gattini domestici mi si fanno incontro intraprendenti. Mi domando come faccia a meritarmi tutta questa confidenza immediata. Hanno perfino la tv sintonizzata su Al Jazeera English, il mio canale preferito. Saranno mica telepatici? Ma intanto la presentazione dei pargoli nati nel campo profughi non e' finita. "Abbiamo anche i due piu' grandicelli che ora sono a scuola, e poi il maggiore, che siamo riusciti a mandare a studiare in Canada dallo zio. Sta diventando un giocatore di basket professionista, ma ormai sono anni che non lo vediamo". L'obiettivo di Roceline e Keita e' di seguire in blocco la scia di proprio figlio, trasferendo in Canada baracca e burattini. "Qui al villaggio la vita e' difficilissima". E per capirlo non c'e' bisogno di spiegazioni. Far fronte alla stagione delle piogge in questa catapecchia dev'essere disumano. "Nel 2008 ci entro' l'acqua in casa".Senza contare l'assenza quasi totale di negozi, di scuole superiori, di istituzioni. "Dopo le medie la maggior parte dei ragazzi del villaggio abbandona perche' lo stato ghanese , una volta superati i 14 anni, interrompe il programma di sostegno allo studio. Cosi' la disoccupazione e' dilagante. Anche io pur essendo una insegnante bilingue non riesco a trovare lavoro", allarga le braccia Roceline, asciugandosi le lacrime di dolore e di rabbia. "I ghanesi del villaggio vicino di Eqwe ci vogliono tenere isolati in questa terra di nessuno. E' una vergogna". La loro indignazione diventa anche la mia. Ma in fondo la scuola di Beyin non e' affatto lontana. Bisogna dire a padre Raphael che abbiamo pronta una nuova insegnante di francese...

mercoledì 20 luglio 2011

La scuola dei sogni

Se a Beyin il clan di Padre Raphael mi ha accolto come un re e' tutto merito di Peccioli, paese il cui gruppo scout mi ha adottato a partire dal lontano 2004. E' con la gente di Peccioli che il 40enne prete di Beyin ha fatto amicizia in uno dei suoi periodi di studio in Italia. E' grazie a Peccioli che Raphael ha creato un ponte di cooperazione e condivisione fra l'Italia e il suo villaggio. Per piu' di una volta Raphael ha accolto dalle sue parti comitive di avventurieri pecciolesi, trasformando la sua casa fra le palme in un villaggio vacanze in riva all'Oceano. Durante tutti questi anni Raphael e la sua banda di parenti ci hanno viziato, coccolato e rimpinzato. Ma allo stesso tempo ci hanno aperto gli occhi sulla spontaneita' e sulla fraternita' della vita qui, dove i bambini di 3 anni girano da soli e senza pericoli per le vie del villaggio; e dove la gente sembra ancora immune al virus dell'individualismo e della diffidenza reciproca che tanti danni sta facendo fra noi cittadini del primo mondo. I viaggi a Beyin ci hanno raccontato le speranze, le risorse e le necessita' di questo angolo di Africa, che Raphael cerca con tanto ardore di sospingere fuori dalle sabbie mobili dell'emarginazione. Raphael ci ha fatto innamorare dei suoi nipotini e dei suoi progetti. Ci ha convinto a darci da fare, a trasformarci in altoparlanti in carne e ossa: per far rimbalzare in Toscana le sue proposte di intervento sociale e per convogliare verso Beyin gli slanci solidali della nostra gente.   
L'ultima scommessa in cui Raphael ci ha coinvolto si chiama scuola: un progetto a cui la sua famiglia sta lavorando da un paio d'anni, indebitandosi pesantemente con le banche pur di far partire i lavori. L'anno scorso ce la fecero vedere in costruzione. Ma stavolta a me e' toccato l'onore di visitarla per la prima volta in pieno orario scolastico. Le lezioni infatti qui in Ghana finiscono con un mese e piu' di ritardo rispetto a noi. Luglio e' il mese cruciale delle ultime verifiche, a cui si stanno sottoponendo anche i piu' di 200 allievi della nuova scuola di Beyin. Dall'inizio dell'anno scolastico sono in funzione la scuola materna e le prime quattro classi della primaria. Ma mentre i bambini imparano, i lavori architettonici di messa a punto proseguono: dai prossimi anni saranno pronte anche la quinta e la sesta elementare (in Ghana e' previsto un anno di piu' che in Italia). E a seguire l'innalzamento del primo piano, dove troveranno posto le tre classi della Junior High School (scuola media).
Stamattina quando mi sono visto piombare in salone i tre nipotini di Raphael, elegantissimi nella loro uniforme a quadretti bianchi e blu, ero quasi piu' emozionato io di loro. Abbiamo fatto colazione con un occhio ansioso all'orologio, e poi ci siamo incamminati insieme sulla strada rossa, facendo slalom fra le pozzanghere per non sporcare le scarpe da ginnastica ex pecciolesi di Darrods, William e Presla. Sul piazzale sabbioso della scuola - collocata non a caso vicino alla chiesa, praticamente sulla spiaggia, nel cuore del villaggio - ecco materializzarsi davanti a me uno sciame di altri folletti bianchi e blu. Un clima di festa pazzesco, che ha raggiunto l'apice al momento dell'entrata in scena della mia macchina fotografica. Decine di bimbi a corrermi davanti, una lotta senza quartiere a caccia del flash in primo piano. E poi tutti intorno, ammaliati, a sbirciare l'immagine piccolina dentro il monitor. Tutti a urlarmi "Befle'! Befle'!" (uomo bianco, in dialetto nzema), tutti a volermi stringere la mano, tutti impazziti... Confesso che per qualche attimo ho pensato alla fuga. Poi gli insegnanti hanno chiamato tutti a raccolta per la preghiera e l'inizio delle attivita', e per fortuna sul mio bagno di folla sono scesi i titoli di coda. 
Durante tutte le cinque ore di lezione non mi sono seduto un attimo, facendo capolino da un'aula all'altra, per non perdermi lo spettacolo. Ho visto all'opera i maestri, ben 12 (4 donne ed 8 uomini), quasi tutti molto giovani e pieni di entusiasmo. Usano l'inglese come lingua veicolare al posto del dialetto, che alcuni insegnanti nemmeno conoscono essendo arrivati da fuori regione. Spiegano inglese, matematica, scienze, francese, storia e geografia, educazione civica e ambientale, informatica, artistica, religione. Sono coordinati dal fratello minore di padre Raphael, Emmanuel, che ha in mano la gestione operativa dell'istituto e che in questi giorni ha anche in carico la mia ospitalita' essendo Raphael assente dal Ghana per uno dei suoi tanti viaggi di pubbliche relazioni.  Rispetto alle nostre scuole la differenza piu' marcata e' l'assenza dei bidelli, le cui mansioni sono ripartite fra il resto della popolazione scolastica. Compresi i bambini, che ho visto prima delle lezioni organizzarsi di propria iniziativa e armarsi di scope e racchette, per spolverare e rimettere in ordine le aule e il corridoio. Le loro aule. Il loro corridoio. Un'immagine che non dimentichero' mai.
Il direttore Emmanuel mi ha portato in giro per spiegarmi l'avanzamento dei lavori. I bagni non sono ancora pronti; per ora ci si appoggia su una casa vicina. La sala insegnanti va ancora arredata. I bambini della materna aspettano l'allestimento di un parco giochi coperto a fianco della scuola. E poi l'aula magna, che dovrebbe essere presto dotata di una biblioteca e di un'aula multimediale, con computer, internet, libri e maxischermo a disposizione non solo della scuola, ma di tutta la collettivita'. "A Beyin una scuola elementare e una media pubblica c'erano gia', ma il nostro obiettivo non e' certo quello di creare una scuola per ricchi - mi tranquillizza il fratello di Raphael, che intuisce le mie diffidenze legate all'istruzione privata - i 100 euro all'anno che chiediamo alle famiglie sono alla portata di tutti, e il prossimo anno stiamo pensando di tagliare la retta del tutto, visto che arrivare ai bambini piu' poveri e' la cosa che ci interessa di piu'. Inoltre, non facciamo della diversita' di religione una discriminante. Anche i non cattolici sono benvenuti qui. Il nostro scopo e' migliorare il servizio anche della scuola pubblica, che con la nostra presenza avrà la possibilita' di creare classi meno numerose e piu' efficienti". La scuola Santa Maria (questo il nome scelto dal prete di Beyin) attrae studenti anche dai paesi vicini: per far arrivare tutti a destinazione la famiglia di Raphael ha adibito due caravan a servizio scuola bus. E all'ora di pranzo entra in funzione il servizio catering: le donne delle famiglie del villaggio accorrono intorno alla scuola per distribuire salcicce, riso, pesciolini fritti e ghiaccioli fatti in casa.
Tanti di questi bambini rappresentano la prima generazione scolarizzata all'interno delle rispettive famiglie. La battaglia per l'alfabetizzazione, la cultura e la formazione della societa' civile del domani si gioca in trincee come Beyin. "La conoscenza e' potere", sta scritto a caratteri cubitali sul muro esterno dell'istituto. Chissa' se Padre Raphael nella redazione dello slogan si sara' ispirato a don Milani. Perlomeno io ci ho pensato subito, all'eredita' di Barbiana: la scuola degli ultimi, la scuola che riscatta. Noi scout di Peccioli ci impegneremo perche' questa parentela si rinsaldi ogni giorno di piu'.

In 14 sopra un'Opel Kadett

Allontanarsi dalle grandi citta' vuol dire conoscere un altro Ghana. Quando l'inglese non ti serve piu' a niente, quando le donne iniziano ad avvilupparsi dentro tuniche e turbanti improponibili, quando i capelli delle ragazze diventano corti esagerati, quando l'illuminazione pubblica tende a scomparire, quando le capanne si fanno piu' numerose delle case, quando l'ampiezza della strada si restringe sempre di piu', anzi no, a ben vedere l'asfalto sta lasciando spazio alla terra rossa, alle buche, alle sabbie mobili... Ecco, in quel preciso momento ti accorgi di aver passato la frontiera. Io sul confine ci sono proprio in questo momento. E il mio confine si chiama Eqwe, un villaggio sull'Oceano a 30 km dal confine con la Costa d'Avorio, l'ultimo capolinea dei furgoni del trasporto collettivo. A Eqwe mi ritrovo solo in compagnia dei miei due zaini da scout, in un posto dove la sensazione di lontananza dall'Italia non puo' essere piu' dilatata.
Da un'ora piove senza sosta, sono le 6 di sera e il sipario dell'oscurita' sta calando rapidamente. I chilometri che mi restano per arrivare a destinazione sono 10, e il traffico automobilistico ormai e' ridotto al lumicino. La gente mi guarda strano, un ragazzo mi indica a gesti un canneto sul ciglio della strada, dove un gruppo di donne e bambini rimane seraficamente in stand by. Il fatto che stiano proprio aspettando una macchina e' solo una delle infinite chiavi di lettura. Ma la speranza e l'intuito del trasfertista incallito mi dicono di unirmi comunque a loro, non fosse altro per scampare alla pioggia, al riparo di questa meritoria sala d'aspetto tribale.
In effetti, dopo un quarto d'ora un taxi arriva per davvero. Standing ovation del pubblico, invasione di campo, tutti vogliono salire a bordo. L'unico a non perdere la calma e' il giovanissimo tassista, probabilmente abituato a simili assalti alla diligenza. E il primo fortunato a cui si aprono le portiere della irriducibile Opel Kadett d'ordinanza sono io, che evidentemente rappresento il cliente piu' interessante per il tassista (un euro mai pagato cosi' volentieri...). A seguire il resto della truppa. salgono una, due, tre, quattro, cinque persone. E non finisce assolutamente qui.  La politica del tassista-caronte e' senza dubbio all'insegna dell'aggiungi un posto a tavola. E la gente di qui non si fa pregare. Col passare dei minuti la rosa diventa sempre piu' ampia, due giocatori per ruolo, no, ancora di piu'. La mia preoccupazione finisce per sciogliersi nell'ilarita'. Dopotutto sto vivendo un momento unico e irripetibile, grottesco, inenarrabile; bisogna goderselo appieno per poterlo raccontare come si deve. Fatto sta che al momento della partenza la formazione di viaggio e' cosi' composta. Primo passeggero sdraiato sul cofano, con una mano di sicurezza incastrata fra finestrino e carrozzeria. Si passa poi alla prima fila, dove da sinistra a destra sono schierati il tassista, un folle accovacciato sulle gambe del tassista stesso; poi il sottoscritto sul sedile a fianco, piu' una gentilissima ma aihme' alquanto procace signora ekwense appollaiata sopra di me. Seconda fila: tre mamme con in braccio i rispettivi 4 pargoli. Terza fila, altri due ragazzi pigiati non so come dentro la bauliera. Il totale e' da guinness dei primati: 14 passeggeri!
Nel bel mezzo di questo piacevole carnaio i miei 13 compagni di viaggio sembrano tutto fuorche' in imbarazzo. Il tono e' quello sbarazzino e rilassato da pettegolezzi di paese, mentre a me torna alla mente dopo un anno e mezzo di assenza il timbro inconfodibile del dialetto nzema: la cantilena allegra simil-barese, le consonanti biascicate e trangugiate a una velocita' degna del miglior Gigi Delneri. A giudicare dal clima e dai sorrisi, la possibilita' anche remota di incrociare una volante deve essere lontana anni luce dai loro pensieri.
Col passare dei chilometri le asperita' dello sterrato si fanno piu' profonde, e dietro a ogni buca per noi 14 dell'Opel Kadett c'e' un'emozione nuova da somatizzare. Fortuna vuole che dopo non troppi scossoni riconosca sulla destra la casa verde-evidenziatore del capovillaggio di Beyin. Urlo STOP con tutto il fiato che ho in corpo, e almeno questo il tassista lo capisce. I miei zaini vengono riesumati da dentro la macelleria umana della bauliera. Mi ritrovo per la seconda volta solo, sotto la pioggia, senza lo straccio di un lampione. Ho fame, ho sonno e ho soprattutto un sinistro presagio di diarrea proveniente dall'intestino. Ma cammino, per altri 200 metri ancora, sulla strada deserta, affondando nelle pozzanghere giganti, fino alla grande torre cisterna che non potevo non ricordare.
Suono, suono ancora. Qualcuno risponde, mi riconosce, mi apre, mi raccatta, mi saluta, mi abbraccia, mi festeggia. E di colpo tutto diventa familiare, come essere gia' tornato a casa, a uno sproposito di distanza da casa.

sabato 16 luglio 2011

Giro di boa

La prima settimana di Ghana e' gia' alle spalle. Sono pronto per lasciare Accra e puntare verso ovest. Ieri sera anch'io mi sono fatto il bucato alla ghanese (per la prima volta in vita mia senza la lavatrice). Stamani di buon'ora ho caricato lo zaino, ho dimenticato sicuramente qualcosa e ho salutato Kennedy (nella foto con me davanti a casa) e Veronica con un imbarazzo che non vi dico. Trovare le parole giuste per ringraziarli sarebbe stato difficile anche in italiano. Figuriamoci in inglese. Da questi due fratelli ho ricevuto tanto, e non solo materialmente e logisticamente. Trascorrendo sette giorni con loro ho pian piano imparato a conoscerli e ad apprezzarli. Sono due ragazzi molto seri e molto pragmatici, in pieno contrasto con lo stereotipo dell'africano giulivo e stralunato che noi italioti saremmo portati ad aspettarci. Kennedy e Veronica, al contrario, danno l'impressione di essere cresciuti molto in fretta. A vedere da come si comportano e da quello che raccontano, sembra che il periodo dell'adolescenza e del fancazzismo universitario loro non l'abbiano nemmeno sfiorato. Lontani da casa fin dalle scuole superiori, con il padre morto ormai 10 anni fa e la mamma rimasta con altri parenti nel villaggio d'origine, Kennedy e Veronica le spalle coperte non le hanno mai avute. Sono certamente piu' fortunati dei vicini di casa senza bagno e acqua potabile, ma nemmeno sanno cosa vogliono dire parole come Ryanair, happy hour o discoteca, con cui noi occidentali della stessa eta' siamo abituati a trastullarci. Ne' lui ne' lei per esempio sono mai usciti dai confini del Ghana. Ne' lui ne' lei sembrano avere la possibilita' di volare una spanna piu' su dell'ordinaria amministrazione: le spese, la casa da ristrutturare, il lavoro da trovare e il visto per il Belgio da ottenere assorbono tutte le loro energie, senza spazio per divagazioni mondane. "Veronica, ma perche' stasera che siamo insieme per l'ultima volta non ce ne andiamo tutti e tre al cinema?", ho provato a buttar li' prima di cena. Lei mi ha riportato bruscamente sulla terra. "Grazie, ma il cinema costa davvero tanto. Preferiamo se ci lasci un'offerta, cosi' ci aiuti a pagare le bollette".
Veronica, la sorellina di Kennedy, ha 24 anni, e' laureata di scienze sociali e lavora come supervisore in un istituto privato di formazione lavoro e scuole professionali. Esce di casa la mattina e torna per cena. In questi giorni si sta dando da fare per presentare una candidatura in risposta a un annuncio dell'Unicef, che sta cercando personale in Ghana per un progetto di aiuto all'infanzia. L'inserzione sul Daily Graphic l'avevo vista io, sono contento che le sia interessata parecchio. Sarebbe bello se davvero riuscisse a spuntarla nella selezione. Nel frattempo dovra' organizzarsi per far fronte a un lungo periodo di solitudine in quel di Nungua, visto che Kennedy sta per togliere le tende e il matrimonio per ora non sembra all'orizzonte.
Kennedy invece da oggi riprendera' senza piu' incombenze da guardia del corpo la sua veglia quotidiana all'ambasciata del Belgio, in attesa del tanto agognato visto per motivi di studio. A Bruxelles ad aspettarlo ha gia' due sorelle partite prima di lui, la maggiore delle quali addirittura gia' sposata con un fiammingo. Kennedy ha individuato da tempo un corso post-laurea dell'universita' belga in bonifiche industriali, adatto per arricchire il suo curriculum. Tre anni di specializzazione e una qualifica con cui, chissa', potrebbe ritornare in Ghana con ben altre prospettive di inserimento nel mercato del lavoro. Se tutto va bene dovrebbe partire a fine agosto. Prima di congedarci gli ho detto che lo aspetto in Italia quanto prima per ricambiare l'accoglienza. Lui, pur sempre trincerato dietro la sua espressione imperturbabile, mi e' parso vagamente interessato. Dice che mi chiamera'. Gli auguro tutto il bene del mondo.     

 

venerdì 15 luglio 2011

Sognando Essien

Immaginate uno scenario simile alle colline fra Cecina e Volterra, ma con ancora piu' verde, piu' aria di mare e meno centri abitati a portata di mano. Immaginate che in mezzo a questo paradiso eremitico spunti improvvisamente un cancello importante. E dietro a questo cancello, l'ingresso di un  campo di calcio. E poi un altro rettangolo da gioco. E poi un altro ancora... Un centro sportivo di lusso, con tanto di foresterie, aule studio e spazi ricreativi da fare invidia alla maggior parte delle nostre squadre di serie A. E' questa la casa del Feyenoord Ghana: stesso nome, stessi colori (bianco e rosso) e stessi padroni della blasonata societa' olandese. E' qui, a 50 km da Accra e a due passi dall'Oceano Atlantico, che decine di adolescenti africani inseguono il sogno del professionismo, dei contratti in Europa, del calcio che conta. Un sogno peraltro gia' realizzato da parecchi ragazzi transitati dalla stessa scuola calcio negli anni scorsi. Un esempio di efficienza, meticolosita' e fiuto del businnes applicato al mondo del pallone. Una storia, insomma, che vale la pena di essere raccontata dall'inizio.
Io ho il privilegio di farmela raccontare da Moses, general supervisor di questa Ferrari del calcio giovanile africano. Colui che il Feyenord Ghana lo ha visto nascere e lo ha seguito da dentro per 20 lunghi anni, dedicandoci anima e corpo, fino a diventarne una specie di santone: al tempo stesso amministratore delegato, memoria storica ed eminenza grigia. A dimostrazione che in Ghana la formalita' protocollare nemmeno sanno cosa sia, Moses si presenta davanti a me e al mio fido scudiero Kennedy in ciabatte e pantaloncini da gioco. Un amministratore delegato in abiti da magazziniere, giusto per ricordare che - anche quando c'e' da andare a braccetto con l'Europa - il Ghana rimane sempre il Ghana. E poi, come se non bastasse, ecco le sue prime parole di benvenuto alla vista della mia maglia blucerchiata - "Italiano, Sampdoria!" - che spalancano definitivamente le porte del nostro feeling.
Moses e' un sessantenne dinamico impossibile da incasellare. Da giovane ha fatto il calciatore in serie A ghanese, ma allo stesso tempo si e' laureato in scienze naturali, ha insegnato nelle scuole medie, ha allenato la nazionale di calcio universitaria e non ha mai smesso di frequentare i campetti di periferia, alla ricerca dei campioni del futuro. Ventitre anni fa il suo nome doveva gia' essere gettonatissimo nel sottobosco dei talent-scout ghanesi. Non a caso i dirigenti del settore giovanile del Feyenoord si rivolsero direttamente a lui per mettere su la loro rivoluzionaria filiale in Africa nera. "Era il 1988, ed era il primo esperimento del genere in Ghana. Una accademia per giovani calciatori. Io insieme a una equipe di altri tecnici fummo scelti dagli olandesi per gestire il loro investimento e portare avanti il progetto". Fu cosi' che dal nulla i soldi del Feyenoord si sono trasformati in campi di calcio, foresterie, aule scolastiche e chi piu' ne ha piu' ne metta. "Il progetto era chiaro fin dall'inizio. Noi dovevamo selezionare i giovanissimi calciatori piu' promettenti del paese, e anche delle nazioni vicine. Il Feyenoord dava la possibilita' di farli studiare oltreche' di farli allenare e partecipare a una serie di tornei in Europa. Il tutto a una sola condizione: che lo stesso Feyenoord avesse un diritto di opzione su tutti i tesserati della nostra societa' giovanile".
Il Feyenord Ghana dal 1988 non ha mai smesso di crescere. Il legame filiale col Feyenord olandese col tempo si e' leggermente allentato, anche perche' Moses e i suoi amici hanno saputo trovarsi degli sponsor autonomi e delle entrate remunerative, grazie soprattutto alla gestione dei cartellini dei prodotti migliori del vivaio. I campi e i giardini circostanti sembrano dei tappeti da golf; le strutture sono in continua espansione, dal punto di vista sia calcistico sia scolastico che occupazionale. "Abbiamo gli allenatori ma anche gli insegnanti e una nuova aula multimediale. In tutto diamo lavoro a 43 persone in pianta stabile". Di mese in mese stage e provini si susseguono, ma a restare a tempo pieno nell'organico della squadra non sono piu' di 70 ragazzi, dai 12 ai 18 anni. Moses mi riepiloga la loro giornata tipo: " Alle 5 e mezzo suona la sveglia. Dalle 6 alle 8 allenamento mattutino. Dalle 8 e mezzo alle 12 e mezzo scuola media o superiore, seguendo il programma ministeriale ghanese. Poi pausa pranzo, ancora scuola fino alle 16, e allenamento pomeridiano fino alle 18. Cena, sera libera, e poi tutti nelle camere". Non c'e' da girarci intorno: lo stile di vita e' a dir poco monacale, le regole sono rigide e Moses pretende dai suoi ragazzi il massimo dell'impegno. "Io credo molto nel rispetto delle regole, e d'altra parte i ragazzi sanno che fuori c'e' la fila, se loro non si comportano bene e' peggio per loro, non per noi". A parte le settimane di Natale, Pasqua e 15 giorni fra luglio e agosto, la vita nel calcio-collegio va avanti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. "Abbiamo scelto questo posto non solo per i vantaggi dal punto di vista climatico - mi precisa Moses con un sorriso apparentemente sadico - ma anche perche' e' estremamente isolato. A piedi non vai da nessuna parte. Intorno alle recinzioni abbiamo una sorveglianza ininterrotta delle guardie private, che mi devono relazionare in caso di movimenti strani da parte dei ragazzi. Alla prima fuga sei perdonato, alla seconda cartellino giallo, alla terza arrivederci e grazie".
Per Moses non ci sono mezze misure. O il calcio o le ragazze. Si' certo, la domenica ci sono le gite al mare, ci sono le uscite per i tornei, ma tant'e', nella stragrande maggioranza del tempo si resta rigorosamente fra uomini. "Il discorso cambia a 18 anni, quando i ragazzi ormai sono troppo grandi per restare qui. Allora li diamo in prestito a squadre di serie A ghanese, o, se va ancora meglio, in Europa". Proprio come e' successo al centravanti Dominique Adiyiah, che due anni fa si mise in mostra nella squadra piu' forte di Accra (gli Hearts of Oak), guadagnandosi il pass per i mondiali under 18, l'esordio in nazionale e l'acquisto da parte del Milan. L'anno scorso e' stato in prestito in B nella Reggina senza dare troppe notizie di se', ma il contratto coi rossoneri e' lungo, e il prossimo anno il ragazzo avrà un'altra chance in prestito in serie A turca.
Intanto altri giovani sperano come lui di riuscire nel grande salto dal Feyenoord Ghana all'Europa. E i recenti exploit dei giocatori ghanesi nel calcio dei ricchi alimentano le loro speranze. "I nigeriani puntano troppo sulla forza fisica. Noi ghanesi invece abbiamo la tattica e la tecnica. Guardate centrocampisti come Asamoah o Boateng, sono forti e hanno pure ottimi piedi. Il calcio moderno sono loro". Moses ci crede, che fra poco anche ai Mondiali arrivi l'ora dell'Africa. "Per noi il tifo e' solo per la nazionale. Le squadre locali sono di basso livello, la gente fa i paragoni con le grandi d'Europa, e preferisce guardarsi il calcio vero in tv. Ma per la nazionale e' diverso. Il Ghana sta crescendo anno dopo anno, e io che so guardare lontano lavorando coi giovani vi dico che fra due mondiali in finale ci saranno le Black Star". E a quel punto noi, azzurri permettendo, sapremo per chi fare il tifo.








 

giovedì 14 luglio 2011

Accra lato B

Questa vacanza ad Accra e' un'esperienza straordinaria. Difficile trovare un modo piu' azzeccato di spendere 1000 euro. Ogni incontro e' una scoperta, ogni passo un insegnamento, ogni giorno una novita'. Ma forse questo mio entusiasmo sperticato e' in buona parte frutto di una prospettiva parziale, edulcorata, falsificante. Quella del turista per caso. Cosa cambierebbe se invece che per una settimana questa citta' fosse casa mia per tutto l'anno? E anche per quello dopo? E quello dopo ancora? Cosa vuol dire davvero abitare qui?
Per rispondermi devo iniziare con un dato molto crudo quanto illuminante: l'87% delle famiglie ghanesi vive senza bagno; o spunta una latrina nelle vicinanze, oppure bisogna ripiegare nel fosso sul ciglio della strada. Da queste parti per essere un "borghese di merda" basta avere un cesso a disposizione. Kennedy e sua sorella Veronica ne hanno addirittura due, di bagni, con sanitari dotati di tutti i crismi del primo mondo. La gente del quartiere non si sara' quindi meravigliata nel constatare che l'unico white man di stanza a Nungua e' andato ad accasarsi - guarda caso - nella loro villetta davanti alla spiaggia. L'abitazione di Kennedy non e' l'unica all'occidentale delle vicinanze. In ogni caso lo stacco visivo coi tuguri dei vicini di casa resta impressionante. Tettucci in lamiera, stanzette spoglie e manco intonacate, materassi sul pavimento e, per l'appunto, servizi igienici assenti.
Le differenze di censo e di stile di vita dei cittadini di Nungua tornano in compenso a livellarsi quando si esce di casa e si entra negli spazi comuni. Le strade, ad eccezione del vialone di grande comunicazione, sono tutte e per tutti in terra battuta, prive di asfalto e di dignita'. Non ci sono le fognature, cosi' basta mezza giornata di pioggia per creare l'effetto speciale (ma molto poco poetico) stile laguna di Venezia. Le strade diventano la regione dei grandi laghi. Per guadare le pozzanghere giganti bisogna inventarsi dei giri peschi assurdi. Il fango e' dappertutto, e, per i meno abbienti, perfino dentro casa. Un autentico paradiso per i ranocchi di ogni eta', che la sera dopo cena (una volta liberi dallo stalking di galli, galline, cani e conigli che popolano i vialetti del quartiere) esternano l'apice del loro godimento con un concerto ad altissimo impatto sonoro.
A livello estetico l'oscar della bruttura spetta invece ai pali della luce: bassi, invasivi, vistosissimi, aggrovigliati e soprattutto esposti alle intemperie ambientali. Uno degli effetti collaterali della stagione delle piogge e' infatti il via vai della luce elettrica, che fa scappare i clienti dell'internet point e requisisce il passatempo di gran lunga preferito anche dal ghanese medio: mamma televisione.
Non c'e' da stare allegri, insomma. Ma al conto gia' salato bisogna aggiungere che Nungua non e' affatto uno dei quartieri piu' disagiati della capitale. Uno scalino sotto verso il baratro stazionano le baraccopoli. Lungo la costa se ne vedono tante, anche in pieno centro. A osservare questi slum capisci quanto e' lontana l'Europa. Almeno noi le periferie degradate le sappiamo ipocritamente nascondere sotto il tappeto polveroso delle periferie, cosi' l'occhio superficiale del turista non vede e non si scandalizza. Qui invece in periferia hanno costruito i quartieri dei ricchi: intorno all'aeroporto, o ancora piu' lontano. Il mare di conseguenza - a parte la spiaggia appena decente di Nungua e la manciata di lidi privati degli alberghi di lusso - diventa spesso il ricettacolo dell'umanita' piu' disastrata.
Nell'omblico di Accra, proprio dietro l'Art Center imbottito di cianfrusaglie etniche a uso e consumo dell'uomo bianco, Kennedy mi guida in uno degli sbocchi al mare piu' maledetti della storia. Al posto della spiaggia, si staglia una collina di rifiuti e di terra smossa estesa almeno quanto due campi di calcio. Vecchi, adulti e bambini camminano con gli occhi bassi in mezzo al fetore alla ricerca di qualche scarto da riciclare. Un manipolo di baracche cresciute come funghi velenosi fa da cornice all'insieme. Riconosco le uniformi delle scuole elementari addosso a due piccoletti che si inseguono giocando in equilibrio sul cratere.
Kennedy e' nervoso, non mi capisce, dice che se ora ci succede qualcosa lui non vuole responsabilita'. Scatto un paio di foto alla spiaggia-discarica e lui si mostra ancor piu' infastidito: ai suoi occhi in quel momento devo aver incarnato l'immagine suprema della morbosita'. Ma per me era importante vedere anche questo. Rientriamo a passo svelto dentro la cittadella finta dei turisti, dove finalmente riesco ad accaparrarmi uno dei rarissimi esemplari della mappa della citta' (quanto c'e' voluto per trovarla!). Cerco di farfugliare a Kennedy qualche spiegazione. Ma lui e' un muro. Mi perdo in una voragine di venditrici ambulanti e di interrogativi. La mia testa e' intasata come le strade del mercato di Accra.   
     

mercoledì 13 luglio 2011

La fabbrica dei cervelli

L'ingresso monumentale e' presidiato da due poliziotti oziosi e da una sbarra blocca-traffico. Un passo al di la', e comincia una citta' nella citta'. Addio motori rombanti e fumi venefici. Il viale si fa ampio, lunghissimo, rettilineo, a perdita d'occhio; ricco di alberi, di ombra e di aiuole. E soprattutto, a esclusivo uso pedonale: una parola che qui ad Accra ha un sapore rivoluzionario, e per questo doppiamente apprezzato. Sulla strada scorrono sciami di ragazzi e ragazze con le borse a tracolla e l'argento vivo addosso. I cartelli con le frecce smistano l'utenza fra le decine di vie traverse che conducono ai vari uffici e dipartimenti. E' tutto cosi' strano, silenzioso, organizzato... e addirittura pubblico. E' il campus della gloriosa University of Ghana, il piu' grande ateneo nazionale, che dal 1940 catalizza le energie culturali di un intero paese.
Il mio cicerone Kennedy manco a dirlo ha degli agganci anche qui: da dietro una siepe della citta'-studi incantata fa spuntare John Bosco (un nome da ultra' salesiano) e suo cugino Eliawh. Entrambi si sono trasferiti dal nord del Ghana per venire a studiare ed abitare nel campus. "Per chi arriva da fuori non e' facile guadagnarsi un posto - mi spiegano i ragazzi - solo a chi supera un test di ammissione viene assegnata una camera nelle foresterie dell'universita'''. Eliawh studia geografia, John Bosco invece e' impegnato in un dottorato in scienze politiche, e nel frattempo fa la gavetta come assistente di un professore. Tutti e due fanno a gara per presentarmi le palazzine sedi delle facolta' e dei centri studi. Tutti e due sono orgogliosi di far parte dell'esercito in continua espansione degli universitari di Accra. Quest'anno gli studenti sono 12mila. Ma i lavori di ammodernamento e ampliamento delle strutture continuano senza soste. Due nuovi ostelli sono stati inaugurati la settimana scorsa, e altri due sono in corso di ristrutturazione. Facile prevedere che il numero delle matricole dei prossimi anni sia destinato a lievitare, e non di poco.
Visitare questo posto e' uno spot del Ghana clamoroso, agli occhi di un occidentale. Capisco come si stia evolvendo la fame di questo popolo che, dopo essersi messo alle spalle la lotta per la sopravvivenza, sta cominciando a prendere a morsi l'universo della conoscenza. "Abbiamo bisogno di avvocati, il sistema giudiziario sta camminando a passi da gigante". Anche nelle campagne la gente inizia a chiedere giustizia al tribunale statale anziche' ai capi tribali. Tempi duri invece per i laureandi in lettere (a chi lo dicono...) che si stanno rivelando in sovrannumero rispetto alle possibilita' di assunzione delle scuole. "E' una grande sfida per la nostra economia - sottolinea Eliawh con un velo di preoccupazione - riuscire ad assorbire questa massa crescente di laureati. Il Ghana deve cambiare pelle, per ora il 55% della forza lavoro e' impiegata nell'agricoltura, noi colletti bianchi abbiamo bisogno di piu' industria e piu' servizi".
John Bosco mi guida dentro la sterminata biblioteca universitaria. Il catalogo e' informatizzato, ci sono anche i computer per navigare sul web; per la connessione wireless bisogna aspettare, ma forse neanche cosi' tanto. "In questa stagione non ci sono corsi, per questo vedi cosi' pochi ragazzi sulle scrivanie; ma di norma tu vedessi che battaglia. Le aule studio con l'aria condizionata sono poche, e tutti ce le contendiamo". L'arredamento come al solito e' molto, molto vintage; ma in compenso il materiale librario a disposizione non manca. Nel reparto riviste ci sono pile di Economist e Newsweek da leccarsi i baffi; passare oltre per me e' una prova di volonta'. Ma d'altra parte lo stomaco inizia a brontolare, e i ragazzi vogliono ancora farmi vedere il centro sportivo, il pub, il servizio postale interno e gli alloggi dei professori.
Ci abbuffiamo di riso, pollo fritto e calcio parlato. Il Ghana ci sta rincorrendo anche nel mondo del pallone. E questi ragazzi il Ghana ce l'hanno nel cuore. A nessuno di loro passa per la testa di reinventarsi una vita in Europa. Ma nello stesso tempo ognuno di loro e' consapevole del futuro incerto che li aspetta dall'altra parte del cancello. "Abbiamo le materie prime, la terra fertile, l'oro, il cacao, ora anche il petrolio. Ma non siamo capaci di sfruttare le risorse a dovere. Con tutto il cacao che abbiamo potremmo metterci a produrre cioccolato ed esportarne piu' di quanto fa la Svizzera. Ma per ora di industrie non se ne vedono. E anche nel settore pubblico dobbiamo vincere la malattia delle raccomandazioni. In giro si respira tanta democrazia, e allo stesso tempo una corruzione spaventosa. Noi non abbiamo santi in paradiso, ma vogliamo vivere la nostra vita, senza abbassare la testa". I loro progetti coraggiosi mi contagiano: sono le gambe con cui il Ghana insegue la sua primavera magica di pace e di giustizia sociale.           

martedì 12 luglio 2011

Stand up for your rights

Da sempre sono convinto che uno degli indici basilari per misurare la qualita' della vita in un paese sia la condizione della sua sanita' pubblica. Ecco perche' visitare un ospedale "del popolo" qui ad Accra era un mio pallino fin dal momento in cui prenotai il biglietto aereo per l'Africa. Ancora una volta, il mio genio della lampada ghanese (alias Kennedy) ha esaudito il desiderio. Ancora una volta ci siamo imbarcati sul furgone della speranza (alias Tro-Tro), ci siamo sciroppati la nostra dose quotidiana di traffico a passo d'uomo, buche maledette e litri di sudore. E ancora una volta abbiamo trovato un amico di Kennedy ad aspettarci sorridente alla discesa. 
Stavolta era il turno di Jonathan, un affabile spilungone di 40 anni, responsabile della contabilita' e degli acquisti del La Hospital di Accra.Con mio sommo piacere Jonathan ha pensato bene di ritagliarsi la mezzora antecedente la pausa pranzo per regalarmi un giro approfondito della struttura ospedaliera. Un complesso nato qualche decennio fa come poliambulatorio di quartiere, ma che negli ultimi anni - un po' per l'aumento vistoso della popolazione, un po' per la grande intraprendenza del governo nazionale - si e' sottoposto a una continua serie di ampliamenti, fino a diventare una delle piu' importanti cittadelle sanitarie del Ghana. 
Il fiore all'occhiello dell'ospedale e' una foto di Michelle e Barack Obama attorniati da medici e infermieri di colore in una corsia di un ospedale non meglio identificato. Ma alla precisazione provvede subito Jonathan: "L'ospedale e' questo!". La visita ad Accra della coppia presidenziale a stelle e strisce piu' africana della storia risale all'estate del 2009. A fissare l'agenda e indirizzare la scelta proprio su questo ospedale e' stato l'ambasciatore americano in Ghana, che a quanto pare aveva degli amici impiegati qui ed e' riuscito a tirar fuori il coniglio dal cilindro."Mai viste cosi' tante forze di sicurezza dispiegate - racconta Jonathan - i poliziotti erano appostati anche sui tetti. Pero' al contempo era anche un servizio discreto, perche' noi del personale abbiamo potuto scambiare facilmente i saluti con gli Obama. Io ho in casa la foto con la signora Michelle, una meraviglia".
La visita al La Hospital non deve essere passata inosservata nemmeno agli occhi della first lady americana; non a caso la fondazione benefica da lei presieduta ha instaurato nei mesi successivi una parnership molto proficua con la struttura di Accra: e i frutti si vedono, con una palazzina nuova di zecca pronta ad essere inaugurata con le funzioni di reparto maternita'.
Intanto il nostro giro dell'ospedale prende piede. La struttura e' grandicella, simile all'ospedale di Pontedera; ma fra i dipendenti si respira un clima familiare. Me ne accorgo dalla complicita' e dalla spontaneita' con cui Jonathan e il personale si salutano, chiamandosi per nome, all'entrata e all'uscita di ogni reparto. I problemi burocratici non esistono. Jonathan mi fa vedere tutti e tre i piani del baraccone: la pediatria, il consultorio, la banca del sangue, la chirurgia, la medicina, la lavanderia, gli uffici. Gli interni e le attrezzature sono tutti molto datati, sembra il set di un film anni 70. Pero' ci sono anche grande decoro, pulizia e dignita'. Niente barellati nei corridoi, niente camerate oceaniche, niente squallore asettico. Anzi, subito davanti all'ospedale c'e' la spiaggia con l'Oceano che riempie i polmoni di aria buona e poesia; e tutto intorno una serie di aiuole verdi e molto ben curate (almeno per gli altalenanti standard ghanesi).
Jonathan affettuosamente si unisce a noi anche per pranzo. Ci acquartieriamo al risorantino del personale, e continuiamo a scambiarci opinioni in libertà. Sanita' italiana e ghanese si mischiano davanti a un piatto di polenta appallottolata, da intingere in un sughetto piccante e poi mangiare rigorosamente con le mani. Io tiro fuori le polemiche nostrane sul fine vita e il testamento biologico, e per Jonathan deve essere come leggere il futuro in una sfera di cristallo: mi fa scrivere su un foglietto il nome di Eluana Englaro per continuare a cercare informazioni su internet di sua iniziativa. Jonathan dal canto suo mi spiega che per ora i problemi del Ghana sono concentrati all'altro estremo del viaggio della vita. Mi parla di mortalita' infantile, e della piaga della malaria che continua a uccidere mgliaia di bambini soprattutto nelle zone rurali, dove le condizioni igieniche sono precarie e gli insetticidi oggetti misteriosi. In compenso il sistema-sanita' si sta espandendo a macchia d'olio: ospedali e presidi sono distribuiti ormai in tutte le province, a discapito dell'ignoranza e delle stregonerie dei guaritori tradizionali. Per me e' confortante scoprire che se da noi il welfare sta rischiando di implodere sotto i colpi di leggi finanziarie lacrime e sangue, c'e' ancora una parte di mondo dove il movimento dei diritti sociali sembra navigare col vento in poppa. Abbiamo troppo bisogno di queste notizie. Per prendere spunto e continuare a lottare per un mondo piu' uguale e piu' giusto. Per tutti.

lunedì 11 luglio 2011

La grande bolgia

Fino a oggi non ero ancora stato nel centro di Accra. Dunque fino a oggi avevo un altro concetto di parole come "ressa", "congestionato" o "variopinto". Fino a oggi icone del casino erano per me la stazione Termini all'ora di punta, o la gradinata sud dopo un gol al Genoa, o le mie classi di scuola nell'ora di religione. Ora mi tocca rimodulare il tutto. Il vero ombelico del mondo e' il mercato Makola in Ghana.
Una adunata immensa, una festa dei commercianti all'ennesima potenza. Gente che vende di tutto e dappertutto: in piedi, a sedere, dietro un banchetto, oppure correndo. Gente che sgomita e si pesta i piedi in uno struscio micidiale, gente che tratta, che urla, che canta, che scambia. Al piano terra alimentari, abbigliamento, prodotti per la casa e artigianato di ogni tipo; al primo piano divani, armadi, elettrodomestici e chissa' cos'altro. Kennedy si volta a controllarmi ogni metro, mi dice che in questo marasma potrebbero rubarmi di tutto e in ogni momento. Fa impressione, in effetti, vedersi unico bianco in mezzo a un mare di africani. Non posso nascondermi. Il colore della mia pelle e' quello della gallina bianca da spennare. Quando mi vedono i commercianti si fanno sotto con grande cattiveria agonistica, sembrano tanti Sulley Muntari in pressing indiavolato e senza il peso della diffida. Vorrei tirarmi fuori dal labirinto, ma il reticolo di strade invase dalla bolgia si estende a perdita d'occhio, cosi' anche organizzare un'exit strategy richiede tempo.
Alla fine riusciamo a rifugiarci sul terrazzo di un ristorantino. Ci portano un pollo e un risotto in salsa piccante. Riprendo fiato, do sfogo all'appettito, e finalmente posso contemplare in assoluto relax l'ebollizione del vulcano Makola, scorgendo anche dei tocchi di poesia che fino a quel punto mi ero perso; come le file coloratissime di donne schierate sul marciapiede e intente presidiare i loro pentoloni di primizie marine e vegetali. Alcune di loro per i nostri canoni sarebbero gia' in eta' da pensione. Chissa' dove trovano tutta questa energia. Kennedy mi da' la risposta col suo fare lapidario, precisando che qui in Ghana per mangiare tre volte al giorno bisogna lottare. Alzarsi presto la mattina, rimboccarsi le maniche e badare al sodo. Chissa' perche', ma il pensiero mi vola ai lussi del televisore a schermo piatto e dell'abbonamento a Sky che mi sono concesso poco prima di prendere l'aereo. Un brivido di vergogna mi manda di traverso la coca cola.    
     

Taxi driver

Accra e' una grande metropoli dove ogni giorno vanno a guadagnarsi da vivere milioni di ghanesi. I piu sfortunati si alzano anche alle quattro del mattino per arrivare a un'ora decente sul posto di lavoro. I pendolari di qui hanno una tempra degna degli eroi omerici. Non hanno orari degli autobus, non hanno punti di riferimento, non hanno onda verde, non hanno un chilometro di ferrovia, non hanno la macchina, eppure non si arrendono mai. Non si incazzano, non disperano, non smettono di sbracciarsi e di tendere lo sguardo alla ricerca della carretta giusta su cui imbarcarsi. Sono sicuri che prima o poi (piu' poi che prima) l'esercito dei pendolari avra' la meglio sul demone del traffico, conquistandosi il via libera per ancora un'altra giornata di chissa' cosa.
Sulle strade principali a due corsie, le uniche asfaltate, la gente converge a ogni ora per aspettare il primo mezzo di trasporto pubblico a disposizione. Il traffico e' un fluire ininterrotto di furgoni scarcassati da 12-15 passeggeri che a ogni incrocio si fermano, fanno risuonare il nome del capolinea e caricano altri passeggeri. Per fare bottino pieno i Caronte di turno ci fanno stipare come i milanesi in metropolitana di ritorno da san Siro. Si suda, si boccheggia, ma in compenso fa molto "allegra brigata": nessuno si lamenta. E anche i taxi non sono da meno: costano un po' di piu' (1 euro per 10 km) ma il popolo non si vergogna a mettersi d'accordo all'ultimo momento fra sconosciuti, per salire in macchina insieme e dividere per 5 la tariffa. Fa lo stesso anche Kennedy, che piu' passano i giorni piu' non so come ringraziare per tutte le porte e portelloni che mi sta aprendo su questo Ghana ribollente di energie positive.
I tassisti ghanesi sono matti da legare. Tengono la radio a palla, amano la musica raggae, guidano come cani, sorpassano sulla destra, capaci di tirare a tutta velocita' delle Opel Kadett o delle Fiat Tipo miracolate dopo una miriade di incidenti e passaggi di proprieta'. E a me prende veramente male. I cantieri stradali si susseguono con snervante regolarita': dicono che stanno allargando la carreggiata, ma intanto ci sono solo buche, terra rossa e cumuli di catrame nuovo ancora da posare. Oltretutto su queste strade dirette ad Accra non c'e' l'ombra di un semaforo o una rotatoria, cosi' a ogni incrocio (coi disperati delle vie traverse che aspettano, aspettano, ma alla fine prendono coraggio) capisci perche' sulle fiancate di ogni taxi e furgone collettivo campeggino citazioni bibliche e ringraziamenti alle divinita'. Il codice della strada invece dev'essere opera di qualche adepto di una setta satanica nigeriana. Merita niente altro che disprezzo e livore.

domenica 10 luglio 2011

Popolo di agronomi, analisti e muratori

Il giardino di casa Kennedy e’ tutto un cumulo di ghiaia e calcinacci. Non c’e’ la scritta “lavori in corso” ma si capisce bene che vogliono costruire qualcosa di grosso, tipo un’altra abitazione, sempre dentro il muro di cinta e il perimetro di proprieta’. Kennedy mi spiega che qui le case se le costruiscono da soli. Muratori per passione, ma soprattutto per necessita’. In Ghana, difatti, i mutui sono un privilegio per pochi eletti. Prima di allargare I cordoni della borsa, le banche chiedono garanzie che non tutti pure in Italia sono in grado di offrire. Figuriamoci da queste parti, dove l’era del posto fisso e del contratto a tempo indeterminato non e’ mai esistita. La casa fai da te si costruisce allora con calma, per lotti successivi, lasciando incompiuta l’opera anche per anni, in attesa di racimolare un budget congruo, aggiungere altri mattoni e far parlare la cazzuola.

Costretti in una nicchia i mutui-casa, il servizio bancario che va per la maggiore ad Accra e’ piuttosto il credito al consumo. La febbre delle rate. Rate per comprare gli elettrodomestici, i sanitari del bagno, le tegole del tetto, i macchinari agricoli e (soprattutto) il grande sogno dell’automobile, che continua a essere un lusso inarrivabile nelle periferie come Nungua, dove Kennedy e sua sorella Veronica mi hanno preso in carico da due giorni. Ma anche in questo settore non sono le banche tradizionali a fare la parte del leone. A gestire la stragrande maggioranza dei prestiti si e’ inserito un nugolo di agenzie finanziarie, piu’ aggressive, flessibili e disposte a scommettere. Kennedy mi porta a casa del suo amico Fred, che lavora proprio in una di queste agenzie. “Noi facciamo prestiti con dipendenti del settore pubblico, dagli infermieri agli insegnanti ai poliziotti – mi spiega Fred – nel privato invece licenziano con molta facilita’, meglio non rischiare”. I tassi di interesse sono ovviamente piu’ alti di quelli praticati dalle banche. Fred spiega che si aggirano in media sul 20%, roba da usura per noi, ma probabilmente non la stessa cosa per gli standard ghanesi. “I prestiti sono ripagati e il business funziona perche’ noi ci mettiamo d’accordo con gli enti statali datori di lavoro, e preleviamo la rata del prestito direttamente alla fonte. Cosi’ i clienti non possono prendere scappatoie”.

E le condizioni di lavoro in agenzia come sono? Fred allarga le braccia: “La sensazione e’ che ti possano licenziare in qualsiasi momento. La difficolta’ di trovare un altro lavoro ti rende debole. I superiori ci trattano male, ci ricattano. Continuare a lavorare in agenzia non fa per me. Il mio sogno e’ un altro”. E Fred, il suo sogno, non lo perde di vista. Cosi’ la mattina si guadagna da vivere scarpinando da una parte all’altra di Accra per firmare contratti e autorizzare prestiti, ma la sera continua a studiare (da privatista) per un master post-universitario in economia. “Mi piacerebbe fare l’analista finanziario, la Borsa di Accra e’ in espansione, le possibilita’ ci sono”. E nemmeno Kennedy, di qualche anno piu’ giovane, ha mai perso la voglia di studiare. Dopo la laurea in agraria si sta sbattendo per ottenere un visto di studio dal governo belga. Obiettivo: tre anni di specializzazione a Bruxelles in tecniche di bonifica ambientale. “Alla fine del master, pero’, voglio tornare a casa, perche’ in Ghana c’e’ tanto sviluppo ma ancora poca coscienza ecologica”. Che il Ghana sia un paese in movimento si capisce dai progetti di questi ragazzi: idee chiare, testa sulle spalle, voglia di sacrificarsi, pensiero positivo. Il futuro soffia dalla loro parte.     


sabato 9 luglio 2011

Back to Ghana

Accra, un anno dopo. Tornare in Africa e' un po' come rinascere. Via tutti i comfort, i riferimenti, le difese. La vita qui si raccoglie a mani nude. Qui ho visto ragazzi della mia eta' farsi il bucato nelle bacinelle. Ho visto macchine di terza mano rimbalzare indenni dentro crateri apocalittici. Ho visto bambini giocare liberi fra le case. Ho visto chioschi di lamiera vendere cianfrusaglie a ore improbabili della sera. Ho visto che colore ha la notte in citta' quando di un lampione non c'e' nemmeno l'ombra. Ho visto donne bellissime camminare con il cesto in equilibrio sulla testa; e fiumi di gente accompagnarle in una marcia non competitiva sul ciglio della statale. E ho visto, ancor prima di tutto questo, il mio nome e cognome stampati a caratteri cubitali nella bolgia degli arrivi internazionali. Ho visto l'Accoglienza negli occhi del ragazzo che teneva in mano il cartello, e che in un baleno mi ha traghettato dall'aeroporto alla vita vera (quella nera).
Il ragazzo si chiama Kennedy, ha 26 anni e da ieri a questa parte per me e' diventato tutto: padrone di casa, esame di inglese, guida turistica, compagno di strada. Le vie infinite della chiesa globale ci hanno fatto incontrare (nello specifico, l'amicizia comune con padre Raphael Mensah) e mi hanno spalancato le porte di casa sua. Kennedy divide una villetta monofamiliare di 5 stanze con la sorellina Veronica: dei genitori per ora nessuna notizia; anzi, e' probabile che la loro assenza sia legata a doppio filo alla mia improvvisata, visto che la stanchezza del viaggio intercontinentale mi ha presentato il conto su di un bel letto matrimoniale, e fare due piu' due non e' difficile.
La casa e' praticamente a un passo dalla spiaggia, con le onde a lunga gittata dell'Oceano che suonano come piacevole sottofondo. Eppure qui il mare sembra non filarselo nessuno. Niente tintarella, niente tuffetti o tornei di beach volley. Nonostante il caldo umido e super-invitante, la gente sembra in altre faccende affaccendata. Da' l'idea di avere altro per la testa, cosi' anche il lungomare risulta a dir poco incopatibile con gli standard nostrani: zero tracce di movida, solo una stradetta rossa costellata di buche e pozzanghere. Chissa' perche', ma il traffico, l'asfalto e la vita scorrono su una parallela 500 metri piu' all'interno.