mercoledì 20 luglio 2011

In 14 sopra un'Opel Kadett

Allontanarsi dalle grandi citta' vuol dire conoscere un altro Ghana. Quando l'inglese non ti serve piu' a niente, quando le donne iniziano ad avvilupparsi dentro tuniche e turbanti improponibili, quando i capelli delle ragazze diventano corti esagerati, quando l'illuminazione pubblica tende a scomparire, quando le capanne si fanno piu' numerose delle case, quando l'ampiezza della strada si restringe sempre di piu', anzi no, a ben vedere l'asfalto sta lasciando spazio alla terra rossa, alle buche, alle sabbie mobili... Ecco, in quel preciso momento ti accorgi di aver passato la frontiera. Io sul confine ci sono proprio in questo momento. E il mio confine si chiama Eqwe, un villaggio sull'Oceano a 30 km dal confine con la Costa d'Avorio, l'ultimo capolinea dei furgoni del trasporto collettivo. A Eqwe mi ritrovo solo in compagnia dei miei due zaini da scout, in un posto dove la sensazione di lontananza dall'Italia non puo' essere piu' dilatata.
Da un'ora piove senza sosta, sono le 6 di sera e il sipario dell'oscurita' sta calando rapidamente. I chilometri che mi restano per arrivare a destinazione sono 10, e il traffico automobilistico ormai e' ridotto al lumicino. La gente mi guarda strano, un ragazzo mi indica a gesti un canneto sul ciglio della strada, dove un gruppo di donne e bambini rimane seraficamente in stand by. Il fatto che stiano proprio aspettando una macchina e' solo una delle infinite chiavi di lettura. Ma la speranza e l'intuito del trasfertista incallito mi dicono di unirmi comunque a loro, non fosse altro per scampare alla pioggia, al riparo di questa meritoria sala d'aspetto tribale.
In effetti, dopo un quarto d'ora un taxi arriva per davvero. Standing ovation del pubblico, invasione di campo, tutti vogliono salire a bordo. L'unico a non perdere la calma e' il giovanissimo tassista, probabilmente abituato a simili assalti alla diligenza. E il primo fortunato a cui si aprono le portiere della irriducibile Opel Kadett d'ordinanza sono io, che evidentemente rappresento il cliente piu' interessante per il tassista (un euro mai pagato cosi' volentieri...). A seguire il resto della truppa. salgono una, due, tre, quattro, cinque persone. E non finisce assolutamente qui.  La politica del tassista-caronte e' senza dubbio all'insegna dell'aggiungi un posto a tavola. E la gente di qui non si fa pregare. Col passare dei minuti la rosa diventa sempre piu' ampia, due giocatori per ruolo, no, ancora di piu'. La mia preoccupazione finisce per sciogliersi nell'ilarita'. Dopotutto sto vivendo un momento unico e irripetibile, grottesco, inenarrabile; bisogna goderselo appieno per poterlo raccontare come si deve. Fatto sta che al momento della partenza la formazione di viaggio e' cosi' composta. Primo passeggero sdraiato sul cofano, con una mano di sicurezza incastrata fra finestrino e carrozzeria. Si passa poi alla prima fila, dove da sinistra a destra sono schierati il tassista, un folle accovacciato sulle gambe del tassista stesso; poi il sottoscritto sul sedile a fianco, piu' una gentilissima ma aihme' alquanto procace signora ekwense appollaiata sopra di me. Seconda fila: tre mamme con in braccio i rispettivi 4 pargoli. Terza fila, altri due ragazzi pigiati non so come dentro la bauliera. Il totale e' da guinness dei primati: 14 passeggeri!
Nel bel mezzo di questo piacevole carnaio i miei 13 compagni di viaggio sembrano tutto fuorche' in imbarazzo. Il tono e' quello sbarazzino e rilassato da pettegolezzi di paese, mentre a me torna alla mente dopo un anno e mezzo di assenza il timbro inconfodibile del dialetto nzema: la cantilena allegra simil-barese, le consonanti biascicate e trangugiate a una velocita' degna del miglior Gigi Delneri. A giudicare dal clima e dai sorrisi, la possibilita' anche remota di incrociare una volante deve essere lontana anni luce dai loro pensieri.
Col passare dei chilometri le asperita' dello sterrato si fanno piu' profonde, e dietro a ogni buca per noi 14 dell'Opel Kadett c'e' un'emozione nuova da somatizzare. Fortuna vuole che dopo non troppi scossoni riconosca sulla destra la casa verde-evidenziatore del capovillaggio di Beyin. Urlo STOP con tutto il fiato che ho in corpo, e almeno questo il tassista lo capisce. I miei zaini vengono riesumati da dentro la macelleria umana della bauliera. Mi ritrovo per la seconda volta solo, sotto la pioggia, senza lo straccio di un lampione. Ho fame, ho sonno e ho soprattutto un sinistro presagio di diarrea proveniente dall'intestino. Ma cammino, per altri 200 metri ancora, sulla strada deserta, affondando nelle pozzanghere giganti, fino alla grande torre cisterna che non potevo non ricordare.
Suono, suono ancora. Qualcuno risponde, mi riconosce, mi apre, mi raccatta, mi saluta, mi abbraccia, mi festeggia. E di colpo tutto diventa familiare, come essere gia' tornato a casa, a uno sproposito di distanza da casa.

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