mercoledì 10 ottobre 2012

Moratoria sul debito, e poi?


Sulle pagine del Manifesto di ieri il nostro amico Francesco Gesualdi (fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo nonché assiduo compagno di strada della Fiba Cisl Toscana) ha lanciato la campagna nazionale "Smonta il debito": una richiesta a chiare lettere fatta ai partiti politici del prossimo governo affinché sospendano il pagamento del debito pubblico italiano.

L'articolo di Francuccio sottolinea il peso sempre più insopportabile degli interessi sul debito (una scoppola da oltre 80 miliardi l'anno) che negli ultimi anni è stato sempre decisivo nel far girare in territorio negativo il bilancio dello stato. Un fardello che per essere onorato necessita puntualmente di nuovi prestiti in cambio di nuovi interessi e soprattutto di nuove tasse e nuove sforbiciate al cuore della spesa pubblica.
Francuccio e la sua nuova campagna vogliono fermare questo circolo vizioso: per questo propongono una moratoria sul debito, propedeutica a un audit e a una profonda ristrutturazione ai danni dei grandi creditori italiani e stranieri (fondi, banche, assicurazioni). Corollari di questa rivendicazione sono la nazionalizzazione delle principali banche italiane e un giro di vite sul movimento di capitali da e verso l'Italia.
Seguendo questa strategia "sudamericana" sarebbe possibile, secondo i promotori della campagna Smonta il Debito, dare inizio al cosiddetto New Deal italiano, spostando i soldi destinati al pagamento degli interessi verso progetti di pubblica utilità (ristrutturazione di scuole e ospedali, manutenzione del territorio, ecc) capaci di creare lavoro e benessere sociale.
Peccato però che Francuccio e gli altri sembrino non considerare la prima e più stringente conseguenza di una simile scelta politica. Proviamo infatti a immaginare l'improbabile scenario di vittoria alle elezioni 2013 di un partito dotato della sfrontatezza che servirebbe per una simile inversione a U. Ebbene, una moratoria unilaterale significherebbe calpestare il Fiscal Compact e tutti gli altri dettami economici dell'Unione europea. Una scelta del genere vorrebbe dire espulsione dall'Unione europea e dall'euro, a meno di redenzioni miracolose della Germania e dei suoi sodali nordici.
Ecco allora che il dibattito andrebbe spostato un passo oltre la questione-moratoria, focalizzandosi piuttosto su una domanda chiave: ha senso oppure no rimanere in questa Unione europea e nella moneta unica? Questa domanda è esorcizzata a prescindere dal Pd e dall'Udc manco si parlasse di dichiarare guerra alla Finlandia. Il Pdl e la Lega abbozzano di tanto in tanto il tema ma solo tramite sparate giornalistiche estemporanee, senza approfondimento e con poca credibilità. Nemmeno Sel e Rifondazione hanno osato finora affrontare il tabù dell'euro, limitandosi al pianto greco contro l'austerity e vagheggiando l'ipotesi di una nuova Europa dei popoli, mentre l'amara realtà vede il commissariamento sempre più stringente e il neo-liberismo sempre più feroce orchestrato da Bruxelles. L'unico partito che finora sta provando a confrontarsi con l'argomento è il Movimento 5 Stelle, e in particolare il suo deus ex machina Beppe Grillo che a più riprese ha parlato di un ipotetico referendum sull'euro. Un dibattito vero e proprio, però, deve ancora cominciare. Penso a un dibattito che senza preclusioni e senza opposti pregiudizi provi a mettere sui piatti della bilancia costi e benefici dopo 10 anni di moneta unica (e 30 di cambi bloccati), e soprattutto i diversi scenari che conseguirebbero da una parte al proseguimento dell'euro-austerity, dall'altra a una traumatica uscita unilaterale dalla moneta unica. Visto che nel frattempo le crisi aziendali non si contano più e tutti gli indicatori economici volgono al peggio sarebbe il caso di non perdere altro tempo e cominciare a parlarne, possibilmente con il contributo di attivisti liberi e genuini come Francuccio.
Tommaso Giani    

2 commenti:

  1. Tommaso ha ragione: imboccando una strada che devia dai dettami neoliberisti siglati a livello europeo, possiamo correre il rischio di essere buttati fuori dall'euro. Ma vorrei precisare che questa è un'ipotesi non una certezza, perché è ormai chiaro che il debito pubblico non è più una questione di normale politica, ma un contenzioso di guerra. E come tutti sanno in guerra non si usano solo le armi convenzionali, ma anche quelle psicologiche per colpire l'avversario nella sua forza di volontà. Non a caso, benché sia chiaro che la politica di austerità ci sta rendendo tutti più poveri, chiniamo tutti la testa perché abbiamo paura. Paura di subire ritorsioni che potrebbero procurarci danni peggiori di quelli derivanti dal pagare zitti e muti.
    Ma fra la minaccia e l'attuazione, c'è di mezzo il mare. Certo se al primo urlo ce la facciamo sotto è ovvio che vincono loro. Se invece sappiamo osare, dimostrare che non abbiamo paura di loro e che siamo disposti ad affrontare le loro minacce, a quel punto lo scenario potrebbe mutare.
    Se i popoli di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, i famosi Piigs, si aggregassero attorno ad una politica alternativa di soluzione del debito pubblico potrebbero acquisire una tale forza contrattuale, da non correre più il rischio di essere buttati fuori dall'euro, ma di indurre la Germania a pensare di andarsene per sua iniziativa. Il che ci potrebbe consentire di affrontare una posizione di debolezza commerciale non da soli, ma in alleanza con altri popoli per organizzare un'altra Europa che non sia più l'Europa delle banche, dei mercati e della finanza, ma l'Europa dei popoli solidali.
    Sono convinto che se un paese avesse il coraggio di sfidare le regole del mercato, costituirebbe un esempio che potrebbe fare divampare ovunque la resistenza tale da fare cambiare radicalmente l'agenda a livello europeo. Se l'obiettivo dell'Europa non fosse più la difesa ad oltranza dell'oligarchia speculativa e della strategia di mercato basata sulla concorrenza sfrenata, ad un tratto non si porrebbe più il problema di chi deve essere buttato fuori dall'euro, ma di come riformare il governo dell'euro affinché non sia più strumento di arricchimento del sistema bancario europeo, ma strumento di sovranità monetaria al servizio della collettività per il raggiungimento della finalità sociali ed economiche che insieme decidiamo di perseguire.
    Se poi questa strategia dovesse fallire, potremmo prendere in considerazione, come ultima ratio, l'uscita dall'euro. A male estremo, estremo rimedio, ma se fosse la conseguenza di una resistenza collettiva consapevole non sarebbe poi così traumatica.
    Ma dal mio punto di vista l'uscita dall'euro non la vorrei porre come traguardo, ma come rischio disposto a correre. E trattandosi di rischio dipende dall'evoluzione del contenzioso: dalla forza delle due parti e dai conti che ogni parte si fa in tasca. Io non sono per niente convinto che il potere economico accetti con disinvoltura lo sgretolamento dell'euro. Al contrario penso che di fronte a questa prospettiva accetterebbe di rivedere la sua politica sul debito pubblico. Per questo propongo di rialzare la testa per sostenere altre soluzioni ispirate alla difesa dei deboli, dei diritti e dei beni comuni. Poi nel corso del contenzioso si vede cosa succede e si ridecide volta per volta la strategia da perseguire. Un po' come fa il sindacato: pone le sue rivendicazioni e avvia il processo di lotta. Poi cammin facendo valuta come procedere in base alle reazioni della controparte, alla sua disponibilità a venire a patti, alla forza che siamo capaci di mettere in campo. L'importante è partire con traguardi ambiziosi. A censurarci e ridimensionarci siamo sempre in tempo.
    Francesco Gesualdi – Centro Nuovo Modello di Sviluppo

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  2. IL FALLIMENTO DELLO STATO E' UN INCUBO!
    CAMBIARE I RIFERIMENTI DI CONTABILITA' NAZIONALE E RIDARE RUOLO ALLO STATO NELL'ECONOMIA.

    A tutti i problemi che abbiamo aggiungiamo pure lo Stato che non paga stipendi e pensioni, la fuga dei capitali sotto i colpi di una svalutazione incontrollata, i fallimenti bancari per i titoli di stato in portafoglio che non valgono più niente....L'incubo ci dice che forse anche quel poco di democrazia che ci resta andrebbe in default. Occorre farsi una piccola domanda: lo Stato può fare a meno di emettere nuovi titoli di debito una volta dichiarato un defaul, anche solo selettivo, come proposto da Francuccio? No, specie a fronte di una situazione di recessione come quella che viviamo.
    Ci sono tante altre battaglie da fare e su cui unire le forze, senza fare salti nel buio che dividono le forze.
    1. La patrimoniale e la redistribuzione del reddito
    2. Rivendicare il ruolo della BCE come prestatore di ultima istanza.
    3. Riaffermare il ruolo dello Stato imprenditore per rilanciare gli investimenti produttivi.
    4. Raccogliere consenso per superare i vincoli del fiscal compact

    In questo modo i paesi come il nostro non sarebbero più sotto il ricatto della speculazione finanziaria, o lo sarebbero come Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone in cui la situazione delle finanze pubbliche è anche peggiore della nostra.

    Occorre chiedere con forza almeno la modifica del fiscal compact che ci costringe al circolo vizioso - riconosciuto dalla maggior parte degli economisti e adesso anche dal FMI - austerità-recessione.

    Può darsi che con queste misure lo Stato si ritroverebbe comunque nella necessità di fronteggiare il ricatto della speculazione finanziaria con spread enormi....E allora? Penso allora a misure straordinarie di acquisto forzoso del debito pubblico, reintroducendo forme di vincolo di portafoglio per le banche ed estendendole a Poste spa, Assicurazioni,fondi pensione. Ma se necessario anche per i privati cittadini (esempio quota parte tfr pagata a BTP e ugualmente per vincite, eredità di valori mobiliari ecc.,) in modo da far prevalere comunque le ragioni della democrazia su quelle della stabilità finanziaria.
    E poi anche qualche salutare nazionalizzazione: esempio le fondazioni bancarie (46 mld di patrimonio), la confisca di tutti i beni - non solo immobili - a corrotti, mafiosi, evasori totali con beni in paradisi fiscali, ecc, l'azzeramento della spesa per armamenti di offesa, niente otto per mille, ecc.
    In pratica perchè correre il rischio di fare l'assalto ai forni se possiamo ancora provare tante cose "più normali"?

    Poi vorrei anche condividere alcuni dubbi.
    Il debito dei privati, anche multinazionali, viene rapportato fondamentalmente al capitale proprio, più che al fatturato e nessuno si scandalizza se un'azienda ha un debito superiore al fatturato. Invece per gli stati si ha questa ossessione del rapporto debito/Pil. Ma c'è dell'altro: se un'azienda privata fa un investimento contabilizza come costo di esercizio (costo dell'anno) una piccola quota di ammortamento, perchè si considera come investimento le risorse destinate per i beni durevoli (es.immobili o immobilizzazioni tecniche). Se invece uno Stato fa un investimento (esempio: bonifica suoli, acquisto di una impresa) ho capito -e spero di aver capito male - che si registra solo l'uscita di cassa e quindi tutta la spesa va subito ad aumentare il deficit. In questo modo anche lo Stato si trova condizionato a rinviare le spese necessarie con il risultato di avere con certezza maggiori oneri futuri. Da qui la necessità di rivedere i riferimenti di contabilità nazionale e di valorizzare la spesa di investimento dello Stato.
    Corrado Giani

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(si prega la sintesi)