sabato 27 ottobre 2012

A scuola di New Deal (in salsa argentina)


Lo scorso fine settimana al palasport di Rimini si sono date appuntamento più di mille persone per ascoltare la lezione di Matthew Forstater, professore di economia all'università del Missouri. Forstater è stato l'ideatore del piano Jefes, il sistema di lavori pubblici con cui il governo argentino ha affrontato l'emergenza-disoccupazione all'indomani del default del 2001.

Proprio come il New Deal negli anni 30, il piano Jefes è stato stabilito e reso funzionante in pochi mesi. L'incontro fra il professor Forstater e il ministro dell'economia del governo Kirchner fu quasi casuale: merito di una pubblicazione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, al cui interno figurava un articolo di Forstater con su illustrato a grandi linee il piano che di lì a poco sarebbe diventato il fulcro della politica economica argentina. L'occhio interessato del ministro cadde proprio su quell'articolo: il tempo di una telefonata, e il professore neo-keynesiano di Kansas si ritrovò a implementare il suo modello nelle vesti di consulente del governo di Buenos Aires.
 Nel gennaio 2002 il programma di lavoro fu approvato come misura di emergenza, e cinque mesi più tardi le agenzie del governo cominciarono ad assumere. Il requisito per partecipare al piano era quello di essere capi-famiglia maschi disoccupati, con famiglia e figli a carico. Nel 2003 erano impiegati nel Piano 2 milioni di persone, ovvero il 13% della forza lavoro argentina. Il programma, finanziato attraverso la recuperata sovranità monetaria (dopo lo sganciamento della parità fissa col dollaro) e l'emissione di carta moneta, offriva un lavoro part-time a salario minimo nel settore pubblico. Il costo del piano Jefes è stato inferiore all'1% del Pil, come ha puntualizzato il professor Forstater alla platea di Rimini.
Nel giro di pochi mesi l'Argentina aveva organizzato progetti a livello federale, statale e locale. Per esempio investimenti infrastrutturali e iniziative di riciclo dei rifiuti, progetti di irrigazione e rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi per i senzatetto. biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi per gli anziani, centri contro la violenza in famiglia e molte altre cose. I posti di lavoro nel settore pubblico hanno prodotto occupazione, reddito, qualificazione e istruzione per i partecipanti.
Il piano Jefes ha funzionato molto bene. Il governo argentino ha avuto anche il merito di ridimensionarlo progressivamente, a mano a mano che la crisi economica andava esaurendosi. Perfino la Banca Mondiale in uno dei suoi world report è stata in qualche modo costretta a spendere parole di elogio per il new deal argentino, che ha ridotto la povertà del 70% rispetto al picco del 2001 (dati Ocse), così ha migliorato nettamente i dati riguardo la mortalità infantile e le disuguaglianze economiche fra ricchi e poveri. L'unico dato che continua a essere usato come pietra dello scandalo argentino da parte degli economisti ortodossi è quello dell'inflazione: la guerra dei numeri vede da una parte l'8% di inflazione annua comunicata dal governo argentino, e dall'altra il 20% stimato dagli analisti occidentali. Al di là della guerra dei numeri resta comunque un dato monetario inconfutabile: l'andamento del cambio peso-dollaro. Dopo il default di 10 anni fa e la fine della parità fissa, l'establishment argentino ricominciò a far fluttuare il peso a partire da un cambio arbitrario "1 peso 3 dollari". Dieci anni dopo si è prodotto un aggiustamento tutt'altro che enorme, considerando che il cambio peso-dollaro oggi è fissato a 1 : 4,75.  Di solito l'inflazione e la svalutazione nei confronti delle monete forti vanno di pari passo, quindi questo dato va tenuto in alta considerazione. Per il professor Forstater costituisce un'ulteriore conferma della bontà del suo modello keynesiano applicato all'Argentina. Un modello che secondo lui anche l'Italia potrebbe intraprendere, a patto di abbandonare la camicia di forza dell'euro e di riacquistare la sovranità monetaria. I mille appassionati di economia di Rimini hanno applaudito a lungo. Segno che anche per loro l'uscita dalla moneta unica non è più un tabù, ma un nuovo punto di partenza verso una società più coesa e solidale.
Tommaso Giani 
  

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