mercoledì 25 aprile 2012

Argentina, la terza via


La storia economica del dopoguerra si è fondata su una bipartizione manichea. Capitalismo contro comunismo. Poi il modello sovietico è imploso, sotto il peso delle sue drammatiche storture totalitarie: il muro è crollato, e il mercato ha fatto manbassa cominciando a mostrare il peggio di sé. I profitti e i dividendi hanno preso il sopravvento sui salari e sui diritti. E a chi osa contestare alla radice il totem del profitto come responsabile delle crescenti ingiustizie sociali, la risposta della vox populi è sempre stata la stessa: il capitalismo privato è l'unico modello economico coniugabile con la democrazia. In realtà basterebbe fare un salto in una delle 300 fabbriche cooperative argentine per smentire clamorosamente queste false certezze, e recuperare una voglia sfacciata di pensare alternativo.

La storia delle cooperative argentine è nata sulle ceneri del tanto temuto effetto default. Il paese del tango, che negli anni 90 aveva agganciato la sua moneta al dollaro americano rinunciando alla sovranità monetaria, nel 2001 dichiarò fallimento su un debito pubblico divenuto ingestibile. Il ritorno repentino dal dollaro al peso significò in un primo tempo il crollo del valore dei risparmi di imprese e famiglie. Centinaia di industrie chiusero i battenti, coi rispettivi proprietari scappati chissà dove. Disoccupazione alle stelle, miseria improvvisa, saccheggi nei supermercati.
Sembrava l'inizio della fine, invece è proprio da lì che la riscossa cominciò. Le centinaia di operaie di una impresa tessile di Buenos Aires appena fallita, la Bruckman, decisero infatti che la loro fabbrica non doveva chiudere. Occuparono i capannoni, organizzarono un presidio per assicurarsi che i macchinari e tutto l'occorrente non venisse portato via, e nel frattempo progettarono la riapertura. Tutte le dipendenti si rimisero al lavoro: operaie e impiegate, tutto come prima. La differenza rispetto alla vecchia gestione era solo una, ma sostanziale: l'identità del proprietario. Al posto dell'imprenditore si era insediata l'assemblea generale delle lavoratrici, insieme al comitato direttivo da essa eletta. La fabbrica gestita democraticamente dall'interno, la logica del profitto messa improvvisamente al bando: secondo lo statuto della nuova cooperativa, infatti, gli utili avrebbero dovuto essere utilizzati solo per investimenti produttivi, nuove assunzioni o interventi di welfare nel tessuto sociale circostante la fabbrica. Essendo le lavoratrici tutte sullo stesso piano e tutte proprietarie, i dividendi e le differenze di stipendio non avevano più ragion d'essere.
Ebbene, la fabbrica è ripartita. Ed è ripartita così bene da far parlare di sé tutta l'Argentina, e dare spunto ad azioni analoghe da parte di altri ex operai di altre ex aziende decotte e abbandonate. Si sono susseguite così altre occupazioni, altre assemblee, altre cooperative e altre rinascite. Oggi queste fabbriche sono circa 300, coprono i settori merceologici più svariati (dai trattori Forja alle piastrelle Zanon) e impiegano 16mila lavoratori: un agglomerato capace in breve tempo di mettersi in rete, per tenere unite le cooperative vecchie e nuove ed instaurare un sistema di collaborazione e mutua assistenza. All'inizio infatti le difficoltà non sono mancate. Gli imprenditori, una volta osservata la rinascita della produzione e delle vendite, hanno cercato di riappropriarsi delle loro vecchie imprese. In più c'erano le procedure fallimentari in corso e gli interessi dei creditori, che volevano le fabbriche sequestrate e i macchinari venduti all'asta. La polizia intervenne d'autorità in numerosi stabilimenti autogestiti, anche alla Bruckman: cacciò le operaie fuori dalla fabbrica e appose i sigilli ai cancelli del capannone, nonostante la solidarietà e la tenacia di una massa popolare e nonviolenta interposta fra la polizia e i cancelli al momento dell'azione di forza. Le iniziative di solidarietà della società civile (dall'università alle star della musica) in favore dei lavoratori delle cooperative si susseguirono fino alle elezioni del 2003, che portarono al governo il socialdemocratico Nestor Kirchner. Sotto la sua presidenza, che in qualche modo prosegue tuttora visto che oggi alla Casa Rosada c'è la vedova Cristina Fernandez, la repubblica argentina ha rialzato la testa, svincolandosi dai diktat del Fondo monetario internazionale e rilanciando in modo massiccio le spese sociali: i servizi locali sono stati ripubblicizzati, la povertà relativa portata dal 20 al 10%, gli stanziamenti per sanità e istruzione decuplicati, la moneta mantenuta debole abbastanza per aiutare le esportazioni. E fra i primi provvedimenti a sostegno dei lavoratori è arrivata appunto una legge per sanare la situazione giuridica delle centinaia di fabbriche occupate. Da quel momento le cooperative diventavano legali, e le pretese dei vecchi proprietari cessavano. I sigilli cadevano, il lavoro senza profitti ricominciava più forte di prima. E ora che le cooperative stanno per festeggiare i 10 anni di produzione, qualcuno nel vecchio mondo inizia a sperare che la loro lezione sia abbastanza potente da attraversare l'oceano e cambiare l'Europa.
Tommaso Giani

Per saperne di più: guarda il meraviglioso documentario di Naomi Klein "The take" (la conquista) proprio sul fenomeno delle fabbriche cooperative in Argentina.
       

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