giovedì 16 febbraio 2012

Spese militari, rotto il tabù


Fino all'anno scorso lo scandalo delle spese militari in Italia era una battaglia civile di retroguardia: roba da pacifisti incalliti alla Alex Zanotelli e pochi altri visionari di estrema sinistra. Oggi invece, "per colpa" della crisi del debito sovrano, il ministro della difesa si vede costretto a presentare in parlamento una robusta cura dimagrante per esercito, marina ed areonautica.


La sforbiciata appena approntata dall'ammiraglio Di Paola prevede la riduzione dell'organico complessivo delle forze armate da 190mila a 150mila addetti nel giro di tre anni; e, soprattutto, il ridimensionamento della commessa-monstre dei caccia F35. In origine si prevedevano 130 aerei e 15 miliardi di euro di spese statali. Dopo la sferzata di austerity i numeri si sono ridotti a 90 aerei e 10 miliardi di esborso.
A questo punto si accende il dibattito nel mondo dell'antimilitarismo, fra chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi invece continua a ritenere insultanti i miliardi tuttora stanziati in aerei da guerra e in stipendi forieri di un'utilità sociale davvero relativa (soprattutto se confrontata con quella di un vigile del fuoco, un insegnante di sostegno o un infermiere). Io personalmente mi iscrivo al partito dei soddisfatti, nel senso che non credevo fosse possibile infrangere il tabù delle spese militari in misura così significativa. Temevo infatti che queste commesse verso le multinazionali statunitensi come la Locked Martin non fossero negoziabili, che costituissero cioè una specie di appendice inscindibile alla nostra permanenza coatta dentro l'alleanza atlantica. Per questo penso sia giusto dare il peso che merita a un simile cambio di marcia.
D'altronde, per proseguire il processo di disarmo con incisività maggiore, credo sia ineludibile un'azione di concerto a livello europeo. Si torna sempre lì, all'Unione croce e delizia del nostro essere cittadini: l'unico soggetto dotato del peso politico e diplomatico necessario per ipotizzare una progressiva emancipazione dalle richieste militari americane. Pensate al tema esemplare delle basi a stelle e strisce sul nostro territorio nazionale: non solo vengono mantenute, ma addirittura alcune sono in fase di espansione, come nel caso di Vicenza (accordo ratificato dal governo Prodi nel 2007, che parlò di impossibilità di sottrarsi agli "impegni presi"). Tutta un'altra musica sarebbe se al tavolo delle trattative con gli Usa riguardo concessioni militari del genere sedesse un unico soggetto comunitario, responsabile di un unico e piccolo esercito europeo, impiegato primariamente in compiti di protezione civile, al posto degli attuali 27 carrozzoni nazionali.
Ora come ora nei paesi dell'Europa che conta siamo molto lontani da una prospettiva del genere. Per rendersene conto basta leggere le notizie provenienti da Atene, dove la proposta governativa di tagliare le spese in armamenti è stata respinta sprezzantemente dal cancellierato della Germania, le cui aziende stanno così continuando a vendere armi a un paese sfinito: piuttosto che stringere la cinghia sulle armi, i signori della Ue suggeriscono al premier Papademos di risparmiare un miliardo di euro sulle forniture di medicine negli ospedali.
Queste vicende sono pugnalate nello stomaco a chiunque abbia a cuore l'idea di un'Europa solidale. D'altra parte però è ugualmente vero che in Germania come in Italia il mito delle spese militari e delle grandi opere in generale si sta lentamente sfarinando. La gente comune inizia a esternare una diffusa allergia verso i super-aerei da guerra, i super-treni veloci, le super-centrali nucleari e i super-nuovi raccordi autostradali: preferisce piuttosto piccole opere per il trasporto pendolare o per il potenziamento del welfare. Un segnale di conferma in questo caso arriva da Genova, dove l'indipendente Marco Doria ha appena vinto le primarie del centrosinistra per la candidatura a sindaco proprio esprimendo un secco rifiuto alla nuova circonvallazione autostradale (cosiddetta Gronda), e puntando invece tutto sul trasporto pubblico locale e i servizi sociali, anche a costo di aumentare le tasse per i cittadini più abbienti. Vittorie come queste fanno crescere la speranza nel futuro, mostrando come i tempi di vacche magre siano a volte utili: per rafforzare la coesione fra cittadini, ridiscutere la scala delle priorità, e gettare le basi di una spesa pubblica più vicina ai canoni della giustizia sociale.
Tommaso Giani   

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