martedì 13 dicembre 2011

Natale al contrario

                                         
A Natale siamo tutti più buoni, o forse no. Forse siamo solamente più ipocriti. Penso a Gesù che nasce nella mangiatoia, la "scelta di campo" che il maestro compie fin dal primo momento del suo passaggio sulla Terra: la scelta di stare dalla parte dei più poveri, dei non garantiti, dei senza tetto. Un inizio che insomma è tutto un programma: un percorso che nelle successive pagine del Vangelo si dispiegherà in tutta la sua carica d'amore, inteso come profonda aspirazione alla giustizia sociale. Poi penso a quello che è successo tre giorni fa a Torino, col messaggio del Vangelo andato in fiamme insieme alle baracche di 200 rom vittime di un raid razzista, fortunatamente senza morti o feriti gravi. Ma non importa. Io mi vergogno lo stesso: come italiano, come cristiano, come persona.

Per favore non cerchiamo di ridimensionare l'episodio, o di circoscrivere le responsabilità. Non diamo la colpa alla ragazzina che si è inventata uno stupro dando la colpa agli zingari. Non diamo la colpa agli ultrà della Juve o al sindaco Fassino o agli organizzatori della manifestazione anti-rom da cui è scaturito l'assalto all'accampamento. Pensiamo piuttosto a noi stessi: ai nostri steccati mentali che ci perseguitano, alle paure preventive, alle nostre favole odiose sugli zingari che rubano i bambini, quando semmai (a seconda dell'accezione che si dà al termine rubare) è vero il contrario. Penso al lavoro dei nostri servizi sociali, che troppo spesso privilegiano la soluzione estrema dell'allontanamento coatto dei piccoli abitanti dei campi rom, invece di sforzarsi di trovare soluzioni intermedie condivise con le famiglie.
La realtà è che la situazione di Torino non è diversa da quella della stragrande maggioranza delle città italiane e toscane. I campi rom non sono nati per caso. Sono stati e continuano a essere una scelta politica dei nostri sindaci e amministratori, che fiutano i maldipancia sociali del popolino e a questi cercano di rispondere (nel modo più gretto e sbrigativo). I rom sono un problema, fanno paura alla gente, vanno allontanati, nascosti in coni d'ombra il più possibile distanti e dimenticati dai nostri centri abitati. Il sindaco di Pisa Marco Filippeschi continua a definire un modello da seguire il campo rom attrezzato dal suo comune nella pineta di Coltano: un ghetto etnico fra Pisa e Livorno isolato dai negozi, dalle scuole, dai presidi sanitari, dai servizi pubblici, da tutto. Il sindaco è anche orgoglioso di aver trasformato alcune delle baracche originarie in casette nuove in muratura. Ma questa sarebbe la soluzione? E' questa l'integrazione che vogliamo? Confinando una comunità in un buco nero (ma in muratura...) quante possibilità diamo ai bambini rom di fare amicizia con i coetanei italiani, di invitare i propri compagni di classe a fare i compiti a casa loro, di avere accesso alle biblioteche o agli impianti sportivi al servizio degli altri abitanti di Pisa? Io credo molto poche. Si tratta dunque di una condanna all'emarginazione, che sembra fatta apposta per trascinare le famiglie sradicate nel gorgo della criminalità e dell'accattonaggio.
Quando invece i campi rom riescono a ritagliarsi uno spazio in mezzo a quartieri abitati, con la stessa precarietà igienico-sanitaria ma almeno con qualche possibilità in più di accesso ai servizi civici e di interazione sociale, ecco che i nostri sindaci sceriffi sfoderano il pugno di ferro. Forti con i deboli, deboli con i forti. Se i campi sono troppo vicini alla città, li chiamano "abusivi". Quelli non si possono tollerare. Vanno estirpati, come si fa con l'erba alta. E allora vai con lo sgombero. Quasi ogni nostra città ha all'attivo le sue bonifiche razziali, sempre molto apprezzate dalla cittadinanza. Nel corso di quest'anno il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha sgomberato con successo il campo rom storico nel quartiere Quaracchi (zona Piagge): soluzioni abitative alternative, nessuna. Gli sgomberati hanno provato fino a pochi giorni fa a mescolarsi con gli indignados accampati in piazza Santissima Annunziata, ma il sindaco pochi giorni fa li ha mandati via anche da lì. Ora un buon gruppo di rom fiorentini ha approntato una favela d'emergenza sotto il Ponte dell'Indiano. Stessa musica a Pisa, dove un gruppo di 200 rom che si era accampato vicino all'ospedale di Cisanello è stato recentemente sgomberato dal sindaco Filippeschi. Dove siano scappati, nessuno lo sa e a nessuno importa.
A nessuno o quasi, visto che in mezzo a tanta indifferenza esiste ancora qualche spirito libero capace di nuotare controcorrente. A Pisa per esempio c'è un prete, don Agostino Rota Martir, che ormai da anni ha scelto di vivere insieme ai rom di Coltano. Niente parrocchia e niente canonica, per lui. La sua casa è una roulotte. La sua missione è spezzare il pane fra la gente del campo: senza catechismo e senza paternali; semplicemente con la testimonianza. L'anno scorso ebbi modo di incontrarlo e mi raccontò del suo combattimento interno con cui si trova a fare i conti ogni mattina, quando col suo furgone accompagna alcuni bambini a scuola e poi altri (con le rispettive mamme) al semaforo a chiedere l'elemosina. "Io provo a fare di tutto perché sempre più bambini del campo vadano a scuola - dice don Agostino - e ogni pomeriggio mi metto a disposizione per aiutarli a fare i compiti. Io cerco di convincere, ma di certo non posso dare ultimatum, altrimenti le famiglie non mi accetterebbero più nel campo".              
Don Agostino ha vissuto come un affronto l'operazione mediatica del sindaco Filippeschi, che ha speso soldi pubblici per rendere più stabile e cementificato il campo di Coltano, quando l'unica scelta politica di svolta in favore dell'integrazione sarebbe il superamento in toto dei campi rom. Dalla baracca a una casa: un condominio, un quartiere, un tessuto sociale in cui mettersi in gioco. La maggior parte delle storie a lieto fine della comunità rom in Italia ha visto proprio nel passaggio dalla baracca all'appartamento una pietra miliare del percorso di emancipazione. Basta pensare al caso di Laura Halilovic, ragazza torinese nata in un campo nomadi ma trasferitasi dalla prima adolescenza in una casa popolare insieme a fratelli e genitori: ora è una regista 22enne di fama nazionale. Il suo primo documentario ("Io, la mia famiglia rom e Woody Allen") si è guadagnato un'estate fa la ribalta televisiva della prima serata su Raitre. 
Ma per far diventare normalità queste storie eccezionali c'è bisogno dell'apporto di tutti noi, per formare una massa critica con cui gli amministratori siano costretti a fare i conti. Don Agostino Rota Martir non ha amici nei salotti che contano, però esiste, è contattabile, avvicinabile da tutti i pisani di buona volontà. Perché fino a oggi lo abbiamo lasciato solo? Allo stesso modo c'è don Alessandro Santoro a Firenze, che col suo centro sociale delle Piagge ha fatto del popolo rom un terreno privilegiato di fratellanza evangelica. E poi ci sono le associazioni: Opera Nomadi, Comunità di Sant'Egidio e chissà quante altre. Basta cercare, e poi trovare il coraggio di schierarsi. Dalla parte dei rom, in cammino verso un Natale a dimensione umana.
Tommaso Giani  
  

1 commento:

  1. è che i Rom sembrano così diversi da noi, con tutto: usi, costumi, lingua, così antichi da non risultare comparabili con quelli che siamo abituati a considerare normali. il primo passo che ognuno di noi potrebbe, dovrebbe fare è iniziare a pensare che le differenze non sono tutte nei Rom, molte sono nei nostri occhi . . . poi sarà più facile cominciare a capire, il primo passo per accogliere

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(si prega la sintesi)