domenica 4 dicembre 2011

Il lavoro secondo Francuccio


Francuccio Gesualdi ha imparato la giustizia sociale alla scuola di don Milani. Più di recente ha guidato campagne di successo contro le violazioni dei diritti umani commesse da famose aziende multinazionali; ha portato in Italia parole come "consumo critico" e "boicottaggio"; e nel frattempo non ha mai smesso di lavorare a livello concettuale, cercando di tradurre gli insegnamenti di Barbiana in un nuovo paradigma economico a dimensione umana. Un nuovo modello di sviluppo capace di rimettere al centro del mondo l'uomo, e non i profitti. Qui di seguito riportiamo una delle sue ultime riflessioni sul tema del lavoro. La sua idea forte è affiancare alla tassazione in denaro il prelievo del tempo, come modalità nuova di contributo del cittadino alla cosa pubblica. In altre parole, Francuccio propone di istituzionalizzare il volontariato.  


Viviamo in uno strano mondo. Continuiamo a dire che manca il lavoro, eppure se ci guardiamo intorno non facciamo altro che vedere situazioni che hanno bisogno di lavoro: strade piene di buche,  scuole con l'intonaco a pezzi, classi sovraffollate, malati con scarsa assistenza, giardini pubblici sporchi, attrezzature malandate, boschi pieni di rovi a rischio di incendio, campi abbandonati in attesa che qualcuno li metta a frutto, fiumi pieni di detriti che straripano appena piove un po' di più. Siamo come quelle signore disappetenti che pur avendo il frigo pieno di cibo, si lamentano di non avere niente da mangiare.
In realtà non è delle cose da fare che sentiamo la mancanza, ma del lavoro salariato, come mostrano i dati sulla disoccupazione e in particolare la disoccupazione giovanile. In Italia, ma più in generale nell'opulento Nord del mondo, con poche eccezioni come l'Inghilterra e la Germania, l'occupazione è in crisi da almeno un ventennio per cinque cause principali:

1.      l'avanzare dell'automazione nei settori ad alta tecnologia;

2.      la delocalizzazione produttiva nei settori ad alta manovalanza

3.      la riduzione della domanda come effetto della compressione salariale e della riduzione della spesa pubblica

4.      la saturazione dei mercati maturi come quelli dell'automobile e degli elettrodomestici

5.      la riduzione degli investimenti produttivi come conseguenza della sopraffazione della finanza a sua volta dovuta alla caduta salariale a livello globale.

Tutto ciò è aggravato dalla cecità dogmatica dei politici, della classe imprenditoriale e degli stessi sindacati, totalmente succubi dell'idea liberista che vuole il mercato come unico artefice dell'economia e la concorrenza per il profitto come unico criterio di gestione del sistema economico. Per questo l'unica ricetta che si sente proporre, e che tutti ripetono a pappagallo senza neanche sapere di cosa parlano, è che per uscire dalla crisi economica e dalla crisi del debito bisogna puntare alla crescita.
Del resto i centri di potere sanno che la crescita è uno slogan privo di significato non solo perché la domanda è bloccata, ma anche perché gli ostacoli di carattere ambientale ormai sono sotto gli occhi di tutti. L’acqua scarseggia, la capacità riproduttiva della natura non segue il ritmo dei nostri consumi, i pozzi di petrolio si stanno prosciugando e mentre si sta programmando di affamare milioni di esseri umani con l’idea di trasformare il cibo in carburante, divampano guerre per assicurarsi il controllo delle ultime risorse rimaste. Intanto i rifiuti si accumulano e nel tentativo disperato di eliminarli li bruciamo producendo diossina, nanoparticelle e altre sostanze cancerogene. Senza parlare della famigerata anidride carbonica che ormai ha raggiunto livelli tali da avere compromesso il clima e molti altri equilibri naturali. Ciò nonostante il sistema continua a gridare “crescita o morte” non curante di avere raggiunto le dimensioni del pachiderma che non riesce neanche più a muoversi. La sua parola d’ordine è più produzione, più veleni, più cemento, più trasporti, più consumo, più confezioni, e a chi gli fa notare che tutto ciò provoca ancora più rifiuti, più inquinamento, più malati, più morti, la sua risposta è di nuovo la crescita. A più rifiuti contrappone più inceneritori, a più malati più farmaci, a più inondazioni più muri di contenimento. E poiché registra tutto all’attivo del PIL, anche le sciagure sono conteggiate come benessere.
Con buona pace degli economisti che arrivano a scoprire le cose sempre venti anni dopo che sono successe, gli spazi per la crescita non ci sono più e l'unica vera parla d'ordine che dobbiamo adottare  è riconversione. L'obiettivo non più essere la crescita ma la trasformazione di ciò che abbiamo. Trasformazione del modello produttivo e trasformazione del modello di consumo per metterci in condizione di garantire a tutti di vivere bene utilizzando meno risorse possibile e producendo meno rifiuti possibili. Riconversione per passare dall'inutile al necessario, dall'usa e getta al durevole, dal globale al locale, dall'inquinante al naturale, dall'energia fossile all'energia rinnovabile, dal consumo privato al consumo collettivo.
Un processo di riconversione, che deve necessariamente coinvolgere anche il lavoro perché se continuiamo a ragionare con la vecchia logica rischiamo di fare come abbiamo già fatto in passato, quando in nome dell'occupazione abbiamo difeso le imprese di armi e le imprese di veleni. Oggi in nome dell'occupazione rischiamo di difendere un intero modello che ci porta alla morte.
La grande domanda è come passare da un'economia della crescita a un'economia del limite, garantendo a tutti di vivere bene, non secondo la logica del consumismo ma della dignità personale. Ed ecco il lavoro come principale ostacolo a questo tipo di trasformazione perché nel nostro immaginario c'è la convinzione che per fare crescere l'occupazione bisogna fare crescere i consumi. L'unico modo per uscire da questa trappola è tornare a chiederci qual è la funzione del lavoro. Se venisse un marziano sulla Terra avrebbe tutto il diritto di dire che la massima aspirazione dei terrestri è faticare e chi non è messo in condizione di farlo arriva a gettarsi dalla finestra. In effetti la cronaca è piena di disoccupati che si buttano dal balcone dopo mesi di inutile ricerca di un posto di lavoro.. E siccome il lavoro è anche espressione di fatica, il nostro marziano avrebbe tutto il diritto di affermare che sulla terra la gente si ammazza se non può faticare. Eppure noi non vediamo la fila di persone che chiede di spargere il catrame per le strade, né di fare il manovale nei cantieri. Questi lavori per noi non li vogliamo più, li lasciamo volentieri agli immigrati. Per noi vogliamo il lavoro pulito, il lavoro al computer, perché è nel lavoro di concetto che ci realizziamo.
Ma a questo punto si impone un'altra domanda: quand'anche trovassimo un ottimo impiego all'altezza degli anni di studio che ci hanno portato alla laurea, ma fosse senza stipendio, lo accetteremmo o lo rifiuteremmo? Forse per qualche mese lo accetteremmo come praticantato, dopo di che ce ne andremmo. Dal che si deduce che noi non cerchiamo lavoro, ma un salario. La gente si butta dalla finestra, non per lo sconforto di non avere un lavoro, ma per la disperazione di non avere un salario, perché nel nostro sistema l'unico modo per provvedere ai nostri bisogni è tramite i soldi che la maggior parte di noi può ottenere solo vendendo il proprio lavoro.
Allora proviamo ad immaginare di vivere in un altro sistema dove ad ogni angolo di strada si incontra una mensa pubblica che fornisce a chiunque un pasto gratuito, dove per qualsiasi bisogno si può entrare in una struttura sanitaria e si viene curati tutti senza pagare un centesimo, dove si può andare tutti a scuola fino a vent'anni senza pagare neanche i libri, dove si può salire su qualsiasi trasporto pubblico senza pagare biglietto. Probabilmente anche in questo sistema continueremmo a cercare un lavoro salariato per accedere a tutte le tentazioni che offre il mercato, ma lo faremmo con molto meno affanno perché gran parte delle nostre sicurezze sarebbero già garantite.
Sicurezze: questa è la parola magica che dobbiamo riscoprire. Dobbiamo smettere di concentrarci sul lavoro per focalizzarci sulle sicurezze. La grande domanda che dobbiamo porci è come garantire a tutti le sicurezze fondamentali utilizzando meno risorse possibili, producendo meno rifiuti possibile e possibilmente lavorando il meno possibile.
La risposta è che questa sfida possiamo vincerla a patto di saper ridurre la nostra dipendenza dal denaro e dal lavoro salariato. In fin dei conti è la sudditanza verso il mercato che ci tiene tutti ancorati alla crescita, ma se sapessimo liberarci da questa gabbia mentale scopriremmo che oltre al lavoro salariato esistono molti altri modi per soddisfare i nostri bisogni.
La prima via è il fai da te, una dimensione che nessuno considera perché non procura denaro, ma che gioca un ruolo fondamentale a livello personale e familiare. Una dimensione che se fosse sviluppata di più ci consentirebbe di procurarci occupazione da soli e di risolvere molti bisogni senza dipendere dai consumi degli altri.
La seconda via è lo scambio di vicinato che amplifica e rafforza il fai da te. Anche questa via è abbastanza in disuso, ma anch'essa consentirebbe di risolvere buona parte dei nostri bisogni in forma indipendente. Per questo il fai da te e gli scambi di vicinato sono espressione di libertà e di autonomia. Là dove la gente ha deciso di riprendere in mano la propria capacità di badare a se stessa, ha inventato molte formule organizzative per facilitare gli scambi senza denaro o creandosi il proprio denaro locale.
La terza via è il lavoro comunitario che si iscrive nell'ambito dell'economia pubblica, quel tipo di economia che funziona non secondo il principio della compravendita, ma della solidarietà collettiva. E' tutta la dimensione dei beni comuni, dei diritti, dei servizi pubblici gratuiti, che si sviluppa là dove la comunità riconosce che ci sono dei bisogni fondamentali che vanno garantiti a tutti indipendentemente dal sesso, dall'età, dalla ricchezza, dalla razza. Nel novecento questa convinzione era molto radicata, ma sotto i colpi dell'ideologia liberista oggi vacilla sempre di più e tutte le scuse sono buone per indurre lo stato a cedere ai privati la gestione di servizi fondamentali come sanità, istruzione, previdenza sociale. La parola d'ordine è privatizzare invocando come scusa il debito pubblico e la crisi economica che provoca una riduzione delle entrate fiscali.
In effetti il meccanismo fiscale presenta gravi problemi perché mette l'economia pubblica in una posizione di forte dipendenza verso l'economia di mercato.  Se quest'ultima va bene, la comunità incassa tanto e garantisce molti servizi. Se invece va male, incassa poco ed è meno presente, proprio quando ci sarebbe più bisogno di lei. Non abbiamo bisogno della solidarietà collettiva quando siamo in salute ed abbiamo un buon lavoro. Ne abbiamo bisogno quando siamo malati e disoccupati. Per questo la recessione ci fa paura e preghiamo a mani giunte che l’economia torni a crescere.
Finché si poteva crescere non c'erano problemi, ma oggi che siamo dei pachidermi senza margini di crescita quale strategia useremo? La soluzione è l’autonomia che si raggiunge con lo sganciamento dal denaro, o quantomeno il suo ridimensionamento: l’economia pubblica fatta funzionare non con la tassazione del reddito, ma col prelievo del tempo: tutti chiamati a passare parte del proprio tempo in un servizio pubblico perché il lavoro è la risorsa più abbondante che abbiamo ed è la fonte originaria di ogni ricchezza. Il che non significa abolizione totale del sistema fiscale, ma radicale cambiamento di scopo: non più fonte di finanziamento dell’economia pubblica, ma strumento per indirizzare il mercato: per spingere consumatori e imprese verso scelte di maggior rispetto ambientale e sociale.
Beni e servizi gratuiti in cambio di lavoro gratuito. Potrebbe sembrare un’utopia, in realtà non è neanche una formula tanto originale, in certi ambiti è prassi corrente. Del resto il 15% degli italiani si impegna nel volontariato, chi per imboccare gli ammalati, chi per spegnere gli incendi, chi per ripulire le spiagge, chi per raccogliere feriti, chi per servire la minestra nella mensa dei poveri. E il volontariato cos’è, se non un servizio gratuito messo a disposizione della collettività? Nove milioni di italiani ci mandano a dire che non si accontentano più di un rapporto con la società mediato dal denaro. Vogliono contatto diretto, coinvolgimento, partecipazione, perché ciò li fa sentire più soddisfatti, più realizzati. E allora perché non cominciamo a istituzionalizzare il volontariato introducendo il servizio civile obbligatorio per tutti i ventenni? Di colpo disporremmo in maniera permanente di una quantità incredibile di personale che ci permetterebbe di risolvere un’enormità di problemi sociali e ambientali. Per non parlare dell’effetto educativo che un periodo al servizio della comunità produrrebbe sui giovani: finalmente si ricreerebbe il senso di appartenenza e di coinvolgimento comunitario che è alla base della convivenza civile.
Al momento l’idea di fare funzionare la macchina pubblica attraverso il lavoro diretto dei cittadini è solo una suggestione, i dettagli tecnici non possono essere definiti a priori: dipendono dalle tecnologie utilizzate, dalla quantità di servizi da coprire, dalla flessibilità che si intende adottare. Potrebbero essere due giorni la settimana, una settimana al mese, qualche mese all’anno trascorso in un servizio pubblico o in una fabbrica pubblica. Ognuno dove preferisce di più, nella mansione che gli è più congeniale. Chi a fare l’autista, chi l’infermiere, chi l’impiegato, chi il poliziotto, chi il pompiere, chi il meccanico, chi il programmatore, chi il muratore. Al limite quelle scartate da tutti potrebbero essere svolte a rotazione. In ogni caso le mansioni sono tante, ognuno troverebbe la sua collocazione. Magari un po’ in un servizio, un po’ in un altro, con periodi di riqualificazione per poter cambiare lavoro. Le formule organizzative potrebbero essere varie, l’esperienza aiuterebbe a trovare quella migliore per garantire al tempo stesso un buon servizio e una buona qualità della vita. Di sicuro riusciremmo a garantire a tutti un posto di lavoro part-time.
Ogni persona potrebbe cominciare ad assumersi gradatamente le proprie responsabilità, lentamente, a partire dall’adolescenza, fino ad assumere la forma piena in età adulta per poi affievolirsi di nuovo in vecchiaia. In concreto il nuovo patto potrebbe essere che ogni adulto mette a disposizione della comunità qualche giorno al mese e in cambio la comunità garantisce a ogni persona, dalla culla alla tomba, il diritto ad accedere gratis a tutti i servizi pubblici. Non più ticket sulla sanità. Non più tasse di iscrizione a scuola. Non più biglietti per i trasporti locali. Servizi gratuiti, ma anche beni gratuiti. Per cominciare acqua, luce, gas, forniti direttamente a domicilio. Tariffe zero per i consumi di base, poi prezzi crescenti per evitare gli sprechi.
Per cibo, vestiario ed altri beni di prima necessità le formule possono essere varie. Un’ipotesi potrebbe essere l’assegnazione ad ognuno di una scheda elettromagnetica, a ricarica mensile, da utilizzare per il ritiro gratuito di un ammontare predeterminato di beni presso gli spacci pubblici. Una sorta di reddito d’esistenza garantito a tutti. Non un obbligo, ma un’opportunità che ognuno può cogliere o rifiutare. L’importante è creare le condizioni affinché il minimo vitale non venga a mancare a nessuno.
Francesco Gesualdi

6 commenti:

  1. Sarebbe un sogno. T'immagini D'Alema a guidare insieme a me il camioncino della raccolta differenziata? O Passera col pappagallo ad aiutare un disabile a fare pipì?

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  2. il lavoro è massacrato a tutto vantaggio dei profitti della finanza e invece senza il lavoro non si esce dalla crisi

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  3. Chissà se Monti ha previsto un decreto "salva tessere". Se il sindacato continua ad assecondare le scelte liberiste contro i lavoratori, per tenere gli iscritti ci vorrà un decreto legge. Caro Bonanni le chiacchere stanno a zero, la concertazione è un alibi per non fare niente.

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  4. ... perchè non provare? le idee di Francuccio sono sempre un po' avanti per il tempo che stiamo vivendo, ricordo che i primi boicottaggi e l'invito a fare pressione come consumatori erano considerati illusioni, ma poi hanno funzionato ...
    anche il commercio equo sembrava un esperimento senza futuro e invece da i suoi risultati...
    poi è stato il tempo dei gruppi di acquisto e della filiera corta con i prodotti agricoli e anche questi funzionano ...
    potrebbe funzionare anche quest'altra cosa, bisognerebbe provarla almeno tra vicini e a livello di paese o comune, tanto per cominciare poi vediamo che succede ...

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  5. bellissima sfida sarebbe ...
    come ci possiamo mettere daccordo per cambiare in questo senso ???
    intanto chi è in pensione dovrebbe dedicarsi al volontariato anzichè occupare cariche istituzionali o continuare a fare l'imprenditore. lasciando così spazio ai giovani ....
    non sarebbe cosa da poco ...
    Il processo che indica Gesualdi è un cambiamento necessario, ma un approccio culturale molto lontano dalla quotidianità e credo ci voglia molto tempo perchè si possa realizzare interamente.
    Ciononostante sono convinto anche io che si debba andare in quella direzione, .... e allora, da dove partiamo ?
    come sindacato creiamo momenti e spazzi per discutere della necessità di questo cambiamento!!
    La Fiba Toscana mi pare abbia già tracciato un solco ...
    grazie di questa lungimiranza

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  6. Ci hanno già provato, in grande stile. In Unione sovietica i mezzi di produzione potevano appartenere solamente alla collettività e la collettività decideva quantità e qualità della produzione (piani quinquennali).
    Abbiamo visto come è andata...

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(si prega la sintesi)