lunedì 29 agosto 2011

L'Italia dei disonesti

Le ricchezze dell'Italia sono distribuite tutt'altro che equamente. Bankitalia stima che la metà dei soldi del Belpaese (intesi come risparmi più patrimoni) è in mano ad appena il 10% della popolazione. Servirebbero politiche pubbliche di redistribuzione, per ridurre il divario e garantire anche ai meno abbienti un ventaglio accettabile di diritti: dalla salute all'istruzione, dalla possibilità di muoversi a quella di informarsi e comunicare. Peccato però che le casse dello Stato e degli enti locali, ora più che mai, piangano miseria. Una miseria che fa tornare d'attualità il male endemico della nostra amata penisola: l'evasione fiscale.
C'è una giornalista free-lance, Nunzia Penelope, che a questa nostra vergognosa specialità nazionale ha dedicato un saggio (Soldi rubati, editrice Ponte alle Grazie, nelle librerie da due mesi). L'autrice ha passato ai raggi x l'Italia che evade, fornendo numeri precisi e classificando il peso specifico dell'evasione nei diversi settori dell'economia. Il montepremi delle tasse non pagate misura ogni anno 120 miliardi di euro, il triplo della spesa dello stato per la pubblica istruzione. Di questi 120 miliardi rubati ai nostri servizi, 10 portano la firma dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese, negozi inclusi. E' l'evasione degli scontrini e delle fatture "dimenticate": unisce categorie diversissime; dal fruttivendolo che lotta per non chiudere bottega, al dentista e allo studio legale più pagati in città. E' il tipo di evasione più visibile, che vive della complicità di noi consumatori, che è doveroso combattere per sradicare la cultura dell'egoismo italiota, ma che a livello contabile rappresenta una fetta poco più che trascurabile del maltolto.
Un gradino sopra nella classifica della vergogna stazionano le medie imprese, quelle cioè che danno lavoro a 100-200 dipendenti ciascuna. Otto su dieci di queste imprese dichiarano di essere in perdita o di guadagnare non più di 10mila euro l'anno: cifre infime, in voga già prima della crisi, e che quindi non stanno in piedi. Perché se un'impresa chiude in rosso per svariati anni consecutivi continua a stare aperta? Evidentemente il rosso è solo sulla carta. Parte dei guadagni non viene dichiarata e nemmeno depositata nelle banche italiane, bensì imboscata nei cosiddetti paradisi fiscali (dalla Svizzera alle isolette del Pacifico) dove le leggi nazionali consentono alle banche di mantenere i clienti nel più completo anonimato, anche di fronte a richieste di informazioni da parte di autorità straniere o internazionali. L'ultima megatruffa all'interno di questo target, scovata dalla Guardia di Finanza e salita alla ribalta mediatica, arriva dal distretto conciario della ricchissima Vicenza. L'evasione delle medie imprese porta via alle nostre scuole, ospedali e altri servizi pubblici 18 miliardi all'anno.
La zona uefa del campionato evasori spetta alle imprese di taglia extra-large. Quelle quotate in Borsa, i grandi marchi che ci bombardano di pubblicità su radio, tv e internet. Il 94% di queste società ricorre al transfer pricing, ovvero alla tecnica di spalmare i propri guadagni dalla società madre a una miriade di sotto-società controllate e di comodo, con sede nei paradisi fiscali di cui sopra. Con quale effetto? I guadagni della casa madre italiana vengono fittiziamente smagriti, così da diminuire l'ammontare in tasse richiesto dallo stato italiano. A crescere invece sono i redditi delle controllate, che però abitando nei paradisi sfuggono ai prelievi del fisco di casa nostra. E in più, sempre con lo stratagemma di transazioni fittizie da e verso sotto-società fantasma in altri stati europei, le grandi firme riescono a evadere altre centinaia di milioni di Iva (vedi "truffa carosello" di Telecom e Fastweb dell'anno scorso, 2 miliardi di euro rubati a tutti noi).
Ai vertici della graduatoria troviamo infine l'illegalita più completa, con l'economia mafiosa e quella sommersa responsabili rispettivamente di 60 e 34 miliardi di evasione annuale. Nei businness esentasse della mafia spa rientrano per esempio lo smaltimento selvaggio di rifiuti tossici (servizio molto apprezzato dalle imprese del centro-nord Italia), ma anche il racket delle estorsioni, i traffici di armi e di droga. A proposito di droga, ecco un altro risvolto importante (quello dei mancati introiti fiscali) delle contraddittorie politiche proibizioniste attuate da sempre nel nostro paese. Ma oltre alla mafia c'è come detto l'economia sommersa. Aziende e liberi professionisti impegnati in attività di per sè legali (come le ripetizioni scolastiche, l'edilizia o il tessile) ma assolutamente sconosciuti alle autorità pubbliche: sulla carta non esistono, quindi in questo caso la percentuale di evasione fiscale è del 100%. Evasione che si riverbera anche su chi in queste aziende clandestine lavora come dipendente: contadini, operai, collaboratrici domestiche i cui datori di lavoro non verseranno mai nessun contributo pensionistico e nessuna assicurazione contro gli infortuni. Per questa ragione evasione fiscale e lavoro nero sono una coppia affiatatissima.
Ma come procede la lotta ai rapinatori dei nostri servizi pubblici? Nel 2009 l'Agenzia delle Entrate ha recuperato 9 miliardi di euro. Nel 2010 i miliardi restituiti all'erario sono saliti a 10. Piccoli passi avanti, che diventano però ancora più piccoli se confrontati con i risultati sfoggiati dalla virtuosa Germania. Gli 007 del fisco teutonico si sono messi a setacciare il muro di riservatezza dei paradisi fiscali più vicini (Svizzera, Liechtenstein), tessendo contatti in quei paesi con impiegati di banca disposti a collaborare. I finanzieri tedeschi si presentano a Berna o a Vaduz con in mano milioni di euro da distribuire agli impiegati di banca "spioni", in cambio di una semplice lista con nomi e cognomi dei clienti tedeschi di tali banche. E' questo per esempio il caso di Hervé Falciani, bancario che ha sì perso il lavoro in Svizzera, ma allo stesso tempo intascato 10 milioni di euro dalle autorità tedesche. I contribuenti tedeschi a maggior ragione si fregano le mani: in cambio di 10 milioni in "bustarelle a fin di bene", sono tornati dalla Svizzera 1,8 miliardi di tasse evase; quasi 200 volte tanto. In una di queste soffiate bancarie (stavolta dal Liechtenstein) nel 2008 è stato smascherato il numero uno delle poste tedesche, Klaus Zumwinkel, che ha pagato con una condanna esemplare e con un processo mediatico seguito con entusiasmo dal popolo germanico. Un clima culturale purtroppo agli antipodi di quello che si respira da noi, dove il presidente del consiglio è in idiosincrasia con le tasse, dove gli scudi fiscali (che fanno rientrare i soldi dai paradisi fiscali dietro un pagamento allo stato di appena il 5%) si susseguono a cadenza preoccupante, dove Valentino Rossi ha dovuto patteggiare per evasione milionaria ma non ha perso nemmeno uno dei suoi sponsor. La strada da fare è quindi drammaticamente lunga, ma la responsabilità grava ancora una volta sulle spalle di tutti noi. Riusciremo mai a convincerci, e a convincere, che chi non paga le tasse colpisce al cuore la nostra democrazia?         

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