giovedì 13 ottobre 2011

Nazionalizzare le banche: in Islanda si può



E' passata alla storia come la rivoluzione delle pentole. Perché proprio di mestoli e coperchi erano "armati" i manifestanti di Rejkyavik nei giorni più coincitati dell'inverno 2008-2009. Vi ricordate della crisi in Islanda? Giornali e tv italiane le dedicarono qualche articoletto in terza pagina, giusto nelle prime settimane di deflagrazione. In seguito al panico internazionale causato dal fallimento della banca americana Lehmann Brothers, due dei tre maggiori istituti di credito islandesi furono travolti in pieno dall'effetto valanga. Il governo dell'isola reagì nazionalizzando il sistema bancario e stampando moneta per arginare la corsa agli sportelli da parte delle famiglie. Conseguenza inevitabile fu il crollo del valore della Corona islandese, che perse nel breve periodo circa l'80% nei confronti dell'euro. Come se non bastasse, la situazione fu resa ancor più grave dalle richieste assillanti di Olanda e Gran Bretagna, dove i clienti delle filiali delle banche islandesi aperte in quei paesi pretendevano di riavere indietro i soldi depositati sui conti correnti: una stangata da 2.5 miliardi di euro, che per un'isola di 300mila abitanti e in quelle condizioni era qualcosa di insostenibile.
Da qui la canonica richiesta d'aiuto al Fondo monetario internazionale, che prestò sì i soldi, ma alla simpatica condizione che il ripagamento del debito fosse scaricato interamente sulle spalle dei contribuenti. Il governo islandese non aveva battuto ciglio: anzi, in quattro e quattr'otto aveva messo a punto la finanziaria lacrime e sangue che il Fondo monetario esigeva come garanzia. In pratica, si chiedeva a ogni islandese un pagamento medio di 100 euro al mese per 15 anni.

Ciò che non ci hanno raccontato i media di casa nostra è quanto successo dopo. Ovvero, una folla di gente incavolata che scende in piazza con pentole e pentolini, accampandosi sotto il "Quirinale" di Rejkyavik. Obiettivo: fare pressione sul presidente della Repubblica, e spingerlo a non promulgare la finanziaria. Obiettivo centrato, visto che il presidente Grimsson ritirò con coraggio il suo placet, e (in ottemperanza al dettato costituzionale) rimise all'esito di un referendum popolare la sorte definitiva del provvedimento. Le cronache raccontano di una campagna elettorale al calor bianco e non senza colpi proibiti: addirittura il neo-eletto premier britannico Cameron arrivò a minacciare gli islandesi di un trattamento da stato-canaglia (isolamento commerciale e congelamento dei conti correnti intestati a islandesi nel Regno Unito) nel caso di vittoria dei NO. Ma le lobby e i ricatti diplomatici servirono a poco: alla fine lo stralcio della finanziaria fu sanzionato dal 90% di voti favorevoli, con buona pace degli ex clienti olandesi e britannici, successivamente rimborsati coi soldi dei loro stessi governi. Come ciliegina sulla torta, i dirigenti delle banche implicate nei fallimenti sono stati portati in tribunale (alcuni di loro a dir la verità si sono dati alla macchia), e sull'onda della partecipazione democratica una assemblea costituente è stata eletta scegliendo fra cittadini non iscritti ai partiti, per sostituire la vecchia costituzione concessa dal re di Danimarca un secolo fa. Anche il presidente della banca centrale è stato sostituito. E di ri-privatizzare le tre banche principali dell'isola non se ne parla nemmeno.
Il modello Islanda è stato citato nei giorni scorsi dall'economista Loretta Napoleoni, che nell'ultimo suo saggio "Il contagio" (Rizzoli) teorizza l'uscita temporanea dell'Italia dall'euro, così da permettere un default pilotato, una cancellazione di buona parte del debito pubblico e una massiccia svalutazione competitiva. In questo modo il manufatturiero da esportazione potrebbe ripartire e i tagli al welfare cessare, in attesa di ripensare una Unione monetaria e fiscale su nuove basi. La stessa opinione è condivisa dal giornalista Giulietto Chiesa, che addirittura, sempre a proposito di modello Islanda, cita espressamente la ripubblicizzazione di Bankitalia e del sistema bancario come conditio sine qua non per la ripresa. Queste idee sicuramente suoneranno scandalose ad alcuni, utopiche per molti altri. L'Islanda è grande come Firenze e non è mai stata nell'Euro; il paragone fra i due stati regge fino a un certo punto. Però, nel frattempo, intorno alle idee di Chiesa e Napoleoni un folto movimento di opinione si sta coagulando, bypassando i partiti, sfruttando l'onda anomala di internet. Un movimento che sabato prossimo in piazza San Giovanni a Roma proverà a contarsi, a ritrovarsi, a organizzarsi, per iniziare a lavorare su una strada alternativa (e socialmente sostenibile) alle letterine di Trichet e Draghi.

          

2 commenti:

  1. eh sì, è davvero una bella idea! in effetti con la "massiccia svalutazione competitiva" paga chi si è arricchito e non i soliti disgraziati! dobbiamo sentirne altre?

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  2. Uscire dall'euro? «Non ha senso, è impossibile». Così il ministro greco delle finanze, Giorgos Papakonstantinou, ha risposto alle indiscrezioni di un possibile addio di Atene alla moneta unica. «È impossibile. Anzitutto, perché non esiste il meccanismo per far uscire un paese dall'euro», spiega Papakonstantinou. «E comunque le conseguenze sarebbero catastrofiche: il debito pubblico raddoppierebbe, il potere d'acquisto crollerebbe, le banche collasserebbero e precipiteremmo in una recessione da guerra. Non ha senso politicamente, socialmente, economicamente. Sarebbe un disastro che nessuno vuole davvero, neanche chi si esercita su quest'ipotesi nei paesi nordici». Il ministro esclude anche una ristrutturazione del debito pubblico greco. (Corriere della Sera, 06/05/2011).
    Strano, strano davvero: che i Greci siano scemi? Hanno la soluzione a portata di mano e non la vogliono?

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(si prega la sintesi)