lunedì 14 gennaio 2013

Germania campionessa europea di povertà relativa




La notizia è di quelle da non credere. Eppure la fonte è più che autorevole: si tratta dell'istituto comunitario di statistica Eurostat, che ha stilato una classifica in base alla percentuale di popolazione dei vari stati Ue che percepisce un reddito inferiore di 2/3 a quello medio nazionale. Questa particolare classifica della vergogna, che misura l'intensità delle disuguaglianze sociali interne ai singoli paesi, vede agli ultimi posti (quelli più virtuosi) le nazioni scandinave e la Francia. Niente di clamoroso, dunque. Ma la sorpresa arriva a mano a mano che si scorre verso l'alto la graduatoria, su su fino al primo posto, dove si scopre che, con il 22% di poveri relativi, la nazione dai redditi più sperequati in Europa è - udite udite - la locomotiva tedesca.

E allora si scopre che i dati più o meno lusinghieri sulla disoccupazione non dicono tutto. Se è vero infatti che i disoccupati tedeschi sono solo il 6% della forza lavoro, la classifica di Eurostat ricorda che il solo fatto di lavorare non implica affatto l'assenza di povertà
Per fare un passo avanti nella spiegazione è necessario introdurre una parola-chiave: mini-job (che tradotto dall'inglese significa "lavoretto"). Sono contratti di lavoro di 15 ore settimanali, corrispondenti a una retribuzione mensile di 450 euro. Questi contratti furono introdotti nel 2003 dal governo socialdemocratico di Gehrard Schroeder con l'intento dichiarato di favorire l'ingresso graduale nel mondo del lavoro della popolazione giovanile: l'esempio classico dei fruitori del mini-job al tempo dell'entrata in vigore del relativo provvedimento normativo era lo studente universitario, in cerca appunto di "lavoretti" per coniugare lo studio e un minimo di autonomia economica.
La realtà però ha visto questa tipologia contrattuale esplodere, coinvolgendo non solo gli studenti ma una platea vastissima di professioni: in questo momento i tedeschi sotto contratto con un mini-job sono 7 milioni e mezzo, quasi il 20% della popolazione attiva tedesca. Sono contratti che fanno gola ai datori di lavoro, dal momento che gli imprenditori su quei 450 euro pagano zero tasse e solo una minima quota di contributi; nel mini-job inoltre non sono previste né l'indennità di malattia né le ferie pagate. Ma il dato ancor più importante, denuncia una nota ufficiale della Dgb (principale sindacato tedesco), è che in numerosi casi i 450 euro sanciti in teoria come minimo contrattuale nemmeno vengono corrisposti per intero: secondo il sindacato infatti lo stipendio medio effettivo dei mini-job si aggira sui 260 euro. E allora ecco spiegato come i milioni di tedeschi che sopravvivono con questo tipo di contratti capestro (molto diffusi nei settori dell'assistenza domestica, della ristorazione, degli alberghi e dell'edilizia) vadano a ingrossare insieme ai disoccupati le fila dei poveri relativi.
Quella dei mini-job è l'altra faccia del mondo del lavoro tedesco. Che quindi non è soltanto la tanto idolatrata Wolkswagen e il resto dell'"artiglieria pesante" che produce per l'esportazione. E' anche il mondo dei servizi a bassa professionalità che viene umiliato con contratti da fame. La conclusione di questo viaggio nel "dietro le quinte" dell'economia tedesca è che il drenaggio di ricchezze condotto negli ultimi 10 anni dall'economia della Germania ai danni di noi altri paesi euro-mediterranei non ha contribuito al benessere di un'intera nazione, ma solo di una minoranza mercantilista che continua a prosperare sulle spalle innanzitutto dei suoi connazionali più poveri.
Tommaso Giani

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