giovedì 15 settembre 2011

Quando il debito diventa odioso




C'è un documentario greco che sta spopolando in rete. Si chiama Debtocracy, e (come si intuisce dal titolo) ha per argomento il cappio del debito pubblico, che oggi più che mai si sta stringendo al collo di molte democrazie euromediterranee. Il documentario prende le mosse dalla nozione di "debito odioso", coniata dal giurista russo Alexandre Sack quasi un secolo fa. Un debito pubblico si merita secondo Sack questo marchio infamante se risponde a tre requisiti: 1) è stato contratto dai capi di stato bypassando completamente la cittadinanza; 2) è stato utilizzato per voci di spesa non rispondenti ai bisogni primari della popolazione; 3) ha goduto dell'indifferenza o della complicità del creditore, che minimamente si è interessato a un utilizzo del prestito secondo criteri di bene comune.

La nozione di debito odioso è stata utilizzata dal segretario di stato americano Condoleeza Rice nel 2003 all'indomani della caduta del regime di Saddam Hussein. I suoi colleghi dei paesi del G8, Francia e Russia in primis, accettarono di condonare al nuovo Iraq l'80% dei crediti, ma a condizione che il loro atto giubilare fosse pubblicizzato il meno possibile, e la nozione di debito odioso fosse subito riposta nel cassetto dal governo americano. La paura di creare un precedente e di dare un assist giuridico formidabile a una miriade di altri stati indebitati era evidentemente troppo alta.
Ma l'esempio più interessante fornito dal documentario è legato all'Ecuador, paese sudamericano ricco di petrolio e devastato da regimi autoritari e irresponsabili fino ai primi anni 2000. Vale a dire fino all'ascesa nel panorama politico dell'astro di Rafael Correa. Laureato in economia in Europa, Correa ha fatto della ribellione ai principali creditori del paese uno dei pilastri della sua politica economica. Nel 2006, anno dell'avvento di Correa a capo dell'esecutivo, il 50% della spesa pubblica ecuadoriana era destinata al pagamento dei debiti pregressi, mentre solo l'8 e il 4% erano dedicati rispettivamente a istruzione e sanità pubblica. Correa decise di invertire la rotta. Instaurò una commissione di accertamento sul debito estero del paese, per valutare i contratti, le priorità e le responsabilità dei politici ecuadoriani contraenti. Spulciando nei contratti emersero dinamiche simil-mafiose: per esempio il vincolo, imposto da certi creditori internazionali, di investire le somme prestate in progetti infrastrutturali ad hoc, con l'obbligo di far lavorare i soliti colossi americani delle costruzioni. I lavori e le risultanze della commissione furono resi pubblici, per dare spessore e credibilità a una decisione unilaterale senza precedenti: la sospensione del pagamento da parte del governo Correa del 70% dei debiti. Una scelta che ha liberato una somma enorme, 7 miliardi di dollari all'anno, per gli investimenti allo sviluppo economico e sociale del paese.
E infine veniamo la Grecia (per non dire l'Italia, che sta intraprendendo la stessa china). Il paese ellenico ha visto esplodere la sua crisi debitoria nel 2010, quando gli artifici contabili dei precedenti governi per nascondere il debito vennero a galla, facendo impennare all'improvviso gli interessi richiesti dai paesi creditori. La Grecia è così finita in ginocchio, praticamente commissariata dalla famigerata Troika (Fondo monetario internazionale, Commissione europea, Banca centrale europea). Il documentario Debtocracy cerca di mettere in luce come tanti dei miliardi prestati dalle banche e dai governi alla Grecia negli ultimi anni siano andati tutt'altro che a vantaggio della popolazione: una immensa fonte di indebitamento per lo stato ellenico è stata per esempio l'organizzazione delle Olimpiadi 2004, per cui la spesa fu 12 volte maggiore rispetto ai Giochi di 4 anni prima in Australia. Solo per il servizio di sicurezza il governo greco spese 1,5 miliardi di euro. Spese faraoniche senza ricadute positive all'indomani dello spegnimento della fiaccola: spese tutte foraggiate allegramente negli anni del debito facile, e ora pagate a prezzo salato dai cittadini. Il Fondo Monetario e la Banca centrale europea (istituzioni che hanno potere di vita o di morte sulla Grecia senza godere del minimo di trasparenza e democrazia interna) stanno imponendo al primo ministro Papandreu scelte dissanguanti: l'Iva greca, per esempio, è salita non dell'1 come da noi, ma del 10%. Gli stipendi dei pubblici dipendenti hanno subito tagli lineari del 15%, i contratti a termine non saranno rinnovati, i ticket sanitari si sono impennati, le privatizzazioni sono d'obbligo (con l'impoverimento dello spazio di manovra statale che ne conseguirà, con buona pace dei movimenti referendari). Nello stesso tempo la Banca centrale europea sta facendo un favore enorme alle principali istituzioni finanziarie europee che negli anni addietro si erano caricate di contratti con la Grecia (vedi Commerzbank, Bnp-Paribas fino alle nostre Generali): la Bce non ha esitato a comprare dalle banche europee questi crediti a prezzi estremamente più alti di quelli offerti sul mercato privato, assumendosi la patata bollente senza pretendere in cambio nessun provvedimento dalle banche. Quando si dice due pesi due misure.... Nelle ricette di austerity della Bce, inoltre, non figurano guarda caso le spese militari, che anche in Grecia restano sorprendentemente su livelli astronomici, come denuncia il parlamentare europeo francese Cohen-Bendit. Secondo sue fonti non smentite, la Francia negli ultimi mesi ha venduto alla Grecia 5 miliardi di armamenti; la Germania ha rifilato ad Atene 6 vascelli sottomarini. Nessuno sconto. Alla faccia della crisi.
La Grecia non è l'Ecuador, non ha più una moneta propria, quindi il dire "domani smetto di pagare" avrebbe per Atene una ricaduta molto più pesante rispetto a quella sperimentata da Quito. Di fronte al default della Grecia si prospettano - secondo il mio parere autorevole di tuttologo allo sbaraglio - due ipotesi estreme, con poco spazio per le vie di mezzo in stile accanimento terapeutico: o la fine dell'Euro (con l'uscita della Grecia e a stretto giro di posta anche dei vicini compagni di sventura italiani, spagnoli e portoghesi) oppure la nascita di una nuova Europa, più sociale e coesa, meno neo-liberista, meno a misura di banchiere. La seconda ipotesi mi sembra di gran lunga la più preferibile. Ma per sospingerla non possiamo restare con le mani in mano, aspettando il discorso di Bersani, la puntata di Ballarò, le primarie, il governo tecnico, o la prossima finanziaria taglia-futuro. Credo che abbiamo bisogno degli Eurobond, cioè di un debito pubblico non in capo ai singoli stati ma all'Europa intera, per proteggerci dalle speculazioni; abbiamo bisogno di una politica fiscale comunitaria, abbiamo bisogno della ripubblicizzazione della Banca centrale europea (oggi la nostra politica monetaria è in mano alle banche private!); abbiamo bisogno di fondi europei che mettano sanità e istruzione al primo posto (e non la Torino-Lione o gli Euro-fighters). Ma credo soprattutto che queste cose, e molte altre ancora, dovremmo chiederle tutti noi cittadini europei, noi in prima persona, noi insieme. Noi ora.

Per vedere il documentario sottotitolato in inglese: http://www.cadtm.org/Debt-The-Greeks-and-Debtocracy
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