giovedì 22 settembre 2011

L'I-pad sporco di sangue


Dall'inizio del 2010, nelle fabbriche cinesi che lavorano per la Apple 16 operai si sono tolti la vita lanciandosi dai tetti dello stabilimento. Età media 20 anni. Ragazzi e ragazze vittime di capitalisti senza scrupoli, che pur di aumentare i margini di profitto sono disposti a rendere disumane le condizioni di vita dei dipendenti. Con turni di 10 ore al giorno (più altre 80 mensili di straordinario), la giornata tipo di un operaio informatico cinese non contempla spazio per il tempo libero. Si passa dal capannone ai dormitori e viceversa, riposandosi dentro camerate da 25 letti, e vivendo in funzione dei ritmi produttivi di una fabbrica che non si ferma mai. Il giorno di riposo è uno ogni 2 settimane. I sindacati sono fuori legge.
La paga oraria per i più fortunati è di 1,2 dollari all'ora, e l'ammontare giornaliero si dimezza automaticamente per chi timbra il cartellino con 5 minuti di ritardo. Sulla linea di montaggio è vietato parlare ed è vietato sgranchirsi. I bagni sono accessibili solo utilizzando una tessera magnetica con incorporato un timer, che segna disco rosso una volta superati i 10 minuti di bisogni giornalieri. Per chi sgarra una delle regole c'è la gogna della "lettera di confessione": davanti a tutta la squadra di colleghi e supervisori, il colpevole deve ammettere pubblicamente le proprie infrazioni, incassando la riprovazione teatrale degli altri operai ammaestrati. Facile immaginare il livello di stress e di insoddisfazione a cui questi ragazzi sono sottoposti. Un malessere emotivo che in alcuni casi sta portando a scelte estreme.
L'esecutore materiale di questi suicidi bianchi si chiama Foxconn: è l'impresa che conta più dipendenti in tutta la Cina (un milione e 200mila), leader mondiale nella manifattura di prodotti elettronici. Nelle cittadelle industriali arrivano aspiranti in cerca di lavoro dalle regioni più lontane. Ragazzi sradicati dal proprio contesto familiare, abbindolati dalle pubblicità ammiccanti e dai sogni di gloria, per poi ritrovarsi sbattuti nelle camerate adiacenti lo stabilimento, insieme a ragazzi che parlano i dialetti più svariati e con cui è molto difficile comunicare. A casa si torna una volta all'anno se va bene. Il resto è tutto sfruttamento, con danni non solo psicologici ma anche fisici. Nel maggio di quest'anno 3 operai nella fabbrica degli I-pad a Chengdu sono morti in un'esplosione, innescata dalla polvere di alluminio usata per lucidare i monitor touch-screen. Il capannone non era provvisto di impianto di areazione. Per non parlare dei 137 operai avvelenati in un'altra fabbrica produttrice di computer e cellulari (la Wintek): sempre per lucidare i monitor, le giovani tute blu entravano in contatto con una sostanza tossica, il n-esano, capace di procurare danni neurologici permanenti, come la perdita di equilibrio e l'incapacità di mantenere la posizione eretta. Solo per 49 di loro sono arrivati dei risarcimenti poco più che simbolici.
Ma l'esecutore materiale di questa macchina da sfruttamento non esisterebbe senza mandanti. I mandanti sono i primi responsabili, e allo stesso tempo i più intoccabili, quelli che non hanno bisogno di sporcarsi le mani, che possono addirittura far finta di avere la coscienza a posto. Nel nostro caso i mandanti si chiamano Apple, Nokia, Sony, Motorola, Dell e altre multinazionali occidentali che alle fabbriche cinesi commissionano il lavoro. Steve Jobs e C. hanno firmato contratti con i cinesi impossibili da onorare senza il ricorso a sfruttamento: tempi strettissimi, prezzi stracciati; tutto a danno dell'ultimo anello della catena, ovvero degli operai cinesi, a cui spetta la fettina più striminzita dei ricavi delle vendite; sui 499 dollari di un I-pad venduto al dettaglio, i lavoratori ne incassano in busta paga appena 9. Nello stabilimento di Chengdu i manager sono stati costretti a iniziare la produzione con i lavori di allestimento dei capannoni non ancora ultimati: era l'unico modo per tenere i tempi degli ordinativi. E come si fa poi a meravigliarsi in caso di incidenti?
Una ragazza di Hong Kong (ricca regione cinese ad autonomia speciale) insieme alla Ong per cui lavora sta portando avanti una campagna di pressione nei confronti della Apple. La ragazza coraggiosa si chiama Debby Chan, e ha raccolto decine di interviste all'esterno degli stabilimenti cinesi. Ha messo insieme dati e riscontri in un dossier che ha poi consegnato (senza essere ricevuta) nelle mani di un rappresentante della Apple nel suo quartier generale in California. La Apple ha ammesso buona parte dei soprusi denunciati, in un comunicato divulgato proprio in questa estate, ma per ora la presa di coscienza ufficiale non si è tradotta in provvedimenti concreti.
Il nostro ruolo di consumatori è ancora una volta interpellato in modo drammatico. Possiamo continuare a far finta di niente? Ad arraffare l'ultimo ritrovato tecnologico fingendo di non sapere dei suicidi, degli avvelenamenti e delle esplosioni? In caso di risposta negativa, cominciamo a spalleggiare Debby e la sua campagna sacrosanta. Qui sotto trovate il link al documentario di Al Jazeera che parla di lei.  http://english.aljazeera.net/PROGRAMMES/ACTIVATE/DebbyChan.html. Questo invece è il sito dell'associazione per cui Debby lavora: http://www.sacom.hk/. Buon consumo critico a tutti.



  

1 commento:

  1. Molto bello Tommy, lo divulgo! Grazie, me lo potevo immaginare ma non ne sapevo nulla. Le tue fonti sono quei due link che segnali o hai trovato la notizia anche su qualche quotidiano estero? Grazie, a presto! Martina

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(si prega la sintesi)