martedì 10 gennaio 2012

Il sindacato del catenaccio


Oggi parliamo di delocalizzazioni. Un problema drammatico, che ci riguarda da vicino e che sta mandando velocemente in soffitta quel che resta del settore manifatturiero italiano. L'ultimo bollettino di guerra ci parla di Omsa e delle sue 239 lavoratrici dello stabilimento di Faenza: una fabbrica che chiude completamente e che licenzia tutte le sue dipendenti per espandersi in Serbia, in un'altra Europa dove le condizioni economiche, giuridiche e fiscali sono senza dubbio più favorevoli per gli imprenditori.


L'esercito arrabbiato di donne romagnole in tuta blu è riuscito a bucare il video, e anche la rete di internet. I tg schierano inviati, su Facebook nascono gruppi con decine di migliaia di iscritti al grido di "Boicottiamo i marchi Omsa e Golden Lady". Uno dei pochi poteri effettivi che ci restano è infatti quello del consumo critico. Se la campagna telematica dovesse continuare a montare e il numero degli aderenti crescere così torrenzialmente, non è escluso che la proprietà dell'azienda sia indotta a un qualche segnale di ripensamento.
Finora tuttavia abbiamo analizzato la vicenda soltanto da due delle tre angolature possibili: stiamo pensando alle lavoratrici di Faenza, stiamo studiando le mosse dell'imprenditore, e quasi rischiamo di ignorare il probabile sollievo di chi (in Serbia) dalla delocalizzazione sta elemosinando stipendi e posti di lavoro. E' scomodo parlare di loro, perché il solo considerare questo fattore mette in crisi la tattica del catenaccio puntualmente messa in atto da lavoratori e sindacati nostrani colpiti dai trasferimenti di produzione. Il salario minimo mensile a Belgrado è di 180 euro, una somma che non basta ad assicurare nemmeno ad un serbo una esistenza dignitosa; nelle vicine Croazia e Slovenia gli stipendi sono mediamente tre volte più alti. Quindi il giochino del delocalizzatore è fin troppo facile da capire. E' ugualmente facile, però, ammantarsi di moralismo quando dall'altra parte dell'Adriatico ci sono persone affamate di lavoro esattamente come noi, e che vedono l'arrivo del calzificio almeno come un punto di partenza di un agognato percorso di emancipazione. Che gli diciamo allora a questa gente: che "l'impresa deve stare da noi e non da voi perché voi non siete sindacalizzati"? Così finiamo alla guerra tra poveri, e continuiamo a perderci tutti.
Sia noi che i serbi siamo come delle pedine umane che vengono spinte a mangiarsi a vicenda dalla mano onnipotente di un giocatore solitario. Abbiamo due alternative: 1) continuare a stare al gioco, facendo paura o facendo le moine al giocatore, sperando che quest'ultimo faccia vincere noi invece dei serbi; 2) allearci con i serbi e andarcene tutti insieme da questa maledetta scacchiera. Sì, cambiare vita, smetterla di mangiarci fra di noi per far divertire il giocatore solitario. Siamo stati così abituati a vivere sulla scacchiera da arrivare a credere che fuori dal tavolo da gioco non esista futuro.
Fuor di metafora, io mi aspetterei dal sindacato che ci aiutasse a elaborare strategie di fuga e di superamento del modello capitalista globale, un modello di cui ogni giorno constatiamo i crescenti guasti. Capirei allora sì il catenaccio con la Omsa di turno, ma solo come strategia per prendere tempo. Contemporaneamente dovremmo cominciare perlomeno a immaginare un mondo in cui italiani e serbi possano vivere in armonia: ognuno con le proprie calze e ognuno con il proprio lavoro. Sia la sfida ambientale che quella occupazionale ci impongono di riscoprire le potenzialità della filiera corta a scapito delle tanto strombazzate economie di scala. In agricoltura già si sta cominciando a ridurre le capacità produttive, a puntare sulla qualità e ad avvicinare produttori e utilizzatori. E se questo fosse lo schema vincente anche in manifattura, con la rinascita di laboratori artigianali e piccoli opifici non più schiavi della grande distribuzione? Forse i miei sono solo vaneggiamenti. O forse un mondo oltre la scacchiera è già iniziato.
Tommaso Giani     

2 commenti:

  1. Penso proprio che dobbiamo boicottare i prodotti omsa e marchi collegati e insieme far crescere l'economia solidale. Per esempio nel campo della biancheria intima. E' anche cooperazione internazionale con la scelta dei produttori del contone bio-equo-solidale dei coltivatori brasiliani. Questa è la risposta alla tua provocazione di non fare catenaccio contro chi sta fuori ad aspettare il lavoro dagli investimenti stranieri. Spesso però questi investimenti hanno creato le fabbriche rondini, nel senso che dopo qualche anno dalla Serbia passeranno alla bulgaria o alla macedonia e da qui sempre più a sud o sempre più ad est...Spiegò tutto molto bene anni fa il libro "No Logo" di Naomi Klein cosa sono le zone franche d'esportazione che desertificano l'economia dei territori con un'industrializzazione irresponsabile che non paga tasse, che può inquinare quanto vuole, che deroga ai contratti di lavoro in nome dell'attrazione dei capitali esteri che velocemente, come le rondini, poi migrano verso altri lidi sempre più a buon mercato.
    Invece gli artigiani dell'intimo di Novara, messi in rovina dalle delocalizzazioni, sono riusciti a realizzare un'impresa responsabile, ma davvero, non è una ciofeca. E noi del sindacato dobbiamo essere contenti di poter acquistare questi prodotti se vogliamo davvero vivere un'economia diversa. E intorno a questi acquisti far crescere spontaneamente i gruppi di acquisto solidale.
    Consiglio a tutti di andare sul sito di
    MADE IN NO
    Made in No
    è un ponte tra territori lontani,
    capace di collegare filiere pulite
    www.made-in-no.com
    www.faircoop.it

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  2. se quello delocalizzato in Serbia fosse lavoro e non sfruttamento del lavoro, col la scusa di un reddito non lo chiamano schiavitù, ma in pratica è quella, si potrebbe aprire una discussione su chi tra Faenza e Serbia ha più bisogni, o più abilità, o più ..... quello che volete, ma dato che è schiavitù e l'unico quadagno è per un anonimo azionista allora va bene boicottare, cambiare look fino a tornare ai calzetti di lana fatti in casa se serve, ma tutto con la schiena dritta di chi sa che si deve lavorare per vivere, ma che non è giusto lavorare senza partecipare alla distribuzione dei profitti ... pensare che quelle erano le mie calze preferite|||

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(si prega la sintesi)