venerdì 28 settembre 2012

Educazione alla (il)legalità

 


Samia e Luca abitano in un'aula di un ex liceo artistico. Roma, quartiere Tor Marancia, non lontano dalla sede della Regione Lazio. Fino al 2003 era uno dei tanti casi di edifici pubblici della capitale dismessi e lasciati allo stato brado: abbandono, incuria, sporcizia; un rudere, una ferita nel bel mezzo di una tranquilla zona residenziale. Oggi invece quella vecchia scuola vive di nuovo. Ci abitano non solo Samia e Luca, ma tante altre famiglie romane in lotta per la casa. Ogni aula è stata trasformata in un mini-appartamento. Tutte insieme formano un condominio solidale dove le cose da mettere in comune sono tantissime: i servizi igienici, le disavventure, gli ideali, il saper fare, le manifestazioni, le feste, le assemblee...

Per la legge dello stato è occupazione abusiva di suolo pubblico. Ma per la costituzione italiana (art. 47) la casa è sancita come un diritto per tutti i cittadini. Compresi quelli a cui la banca non concede il mutuo, e che nemmeno possono permettersi 750 euro al mese per un monolocale. Le case popolari non bastano, la povertà relativa dilaga. E allora chi è il primo ad essere fuorilegge: gli abitanti della ex scuola di Tor Marancia oppure lo stato italiano?
"Il significato della parola legalità è troppo spesso assolutizzato - risponde Luca, accogliendomi insieme alla compagna Samia nella sua casa-aula -: illegale uguale dannoso, e invece non sempre è così. Anche gli abitanti del quartiere dopo una diffidenza iniziale nei nostri confronti se ne stanno rendendo conto: alcuni partecipano ai corsi di teatro che organizziamo nella palestra della ex scuola, altri sorridendo ci chiedono se per caso avanza una stanza per loro". Già, perché se prima nella vecchia scuola e nell'adiacente ex ambulatorio medico abbandonato proliferava lo spaccio di stupefacenti, ora in entrambi gli edifici riconvertiti a uso abitativo si respira un clima leggiadro, di piacevole normalità. Davanti al cancello si incrociano mamme islamiche che tornano dal supermercato, bambini che rincasano da scuola con gli zaini in spalla, artisti di strada che ripongono trampoli e nasi da clown, giovani coppie alle prese con l'allestimento di un nuovo soppalco per il loro mini-appartamento, vicini di aula che si danno appuntamento nella stanza di un terzo per pranzare insieme.
Portare avanti un'occupazione non è uno scherzo. Serve organizzazione e servono anche regole precise che tutelino l'intera comunità. "Chi vuole abitare qui non deve tenere comportamenti irrispettosi o pericolosi - mi spiega ancora Luca, che del coordinamento lotta per la casa di Roma è anche il portavoce - tanto per fare un esempio non si può abusare di alcol, è bandito ogni tipo di violenza, ma più in generale non ci si può estraniare dalla vita comune dell'occupazione. Il che implica partecipare alle assemblee settimanali del gruppo residenziale ma anche contribuire alle pulizie degli spazi comuni e ai lavori di manutenzione". Dai bagni ai corridoi al cortile esterno il lavoro da fare in effetti non manca. Tanto lavoro però è già stato fatto, come la dotazione di impianti elettrici salvavita in tutte le stanze abitate per evitare il rischio di corto-circuiti. E pure il cortile esterno è ben curato, così i bambini hanno uno spazio dove giocare; uno degli abitanti è perfino riuscito a mettere su un piccolo orto sul retro della vecchia scuola.
Il coordinamento lotta per la casa di Roma gestisce (oltre all'ex liceo ed ex ambulatorio di via Casale de Merode) un'altra manciata di stabili pubblici occupati a uso residenziale. Le famiglie che si rivolgono allo sportello messo a disposizione da Luca e dai suoi amici per accedere a una stanza occupata aumentano sempre di più. Gli stranieri sono la maggioranza (africani e sudamericani), ma anche le famiglie italiane sono in crescita: si tratta disoccupati ma soprattutto di precari; commesse, allestitori di piscine, badanti part-time, animatrici per bambini, cuochi e tanti altri mestieri. Tutte persone per cui la casa popolare è ancora un miraggio. Persone che vedono nelle occupazioni in città una speranza abitativa concreta. "Io ho una mappa di Roma in testa con tutti gli edifici pubblici abbandonati che potrebbero essere occupati e riconvertiti - riflette Luca - ma il problema è anche mantenere gli spazi che già abbiamo. Spazi su cui noi abbiamo speso soldi ed energie per renderli dignitosi e abitabili; spazi che a maggior ragione ora non vogliamo perdere". Il rischio dello "sfratto" è dovuto soprattutto al taglio di risorse imposto dalle politiche di austerity agli enti locali; enti locali che pur di non rinunciare ad ostriche e festini sono dispostissimi a fare cassa vendendo gli immobili pubblici dismessi come la scuola e l'ambulatorio di Tor Marancia. Alla faccia di chi in quelle scuole, ambulatori e caserme ha trovato una casa.
Se al centro dell'operato di un comune o di una regione ci fosse veramente il bene collettivo questo spauracchio non dovrebbe nemmeno esistere. Se ci fosse ragionevolezza e lungimiranza queste esperienze corsare nate dal basso dovrebbero essere assecondate e finanziate dagli amministratori nel quadro di una nuova politica di edilizia pubblica: così gli sforzi già fatti dagli occupanti potrebbero essere completati con una ristrutturazione vera e propria degli edifici (facciata, scale, infissi). Verrebbe meno l'esigenza di nuovi mostri di cemento ai confini estremi della periferia: quelli sì un monumento all'illegalità (ricettacoli di speculazione, disagio sociale e solitudine). Molto meglio sarebbe il recupero dell'esistente, come il coordinamento lotta per la casa di Roma ha già cominciato a fare, spronando l'inettitudine della politica e offrendo una lezione di senso civico a tutti noi.  
Tommaso Giani 

 Per saperne di più: www.coordinamento.info         

 

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