“Andrea!
Ciao, com’è?”. “Allora bimbo, facciamo il punto”.
Non è
facile, ora che non siamo più seduti a tu per tu in salone o in archivio. Non è
più come prima, quando incrociavamo sguardi d’intesa frammisti a battute,
commenti, confidenze, rassegne stampa, aneddoti; il tutto condito dalle tue
boccate di sigaro cinematografiche e dai miei sbadigli sempre più difficili da
domare, a mano a mano che la notte prendeva il largo. Abitudini spassose
entrate improvvisamente nel libro dei ricordi, ora che apro la porta di San
Benedetto e non ti vedo più. Andrea, ma dove sei?
Io so che ci
sei. Non ti vedo ma ti sento, ti respiro. Del resto hai dato tutto te stesso
per una vita intera: ti sei spremuto fino all’ultima energia, fino all’ultimo
colloquio, fino all’ultimo palco, fino all’ultimo articolo, fino all’ultima
messa; in corpo non ti è rimasto niente di inespresso o di messo da parte. La
morte ha suonato il gong, è venuta, ma te l’hai fregata, perché ormai non c’era
più niente da portare via. Avevi già lasciato tutto a noi.
Mi piace
pensarti come sparso a macchia d’olio, con un pezzetto di te che continua a
vivere nei cuori di ciascuno di noi, tuoi compagni di strada. A me per esempio
hai lasciato un tesoro immenso: una traccia, un modello di vita da seguire.
Questi otto anni passati insieme mi hanno fatto innamorare del Vangelo di Gesù
e del modo in cui tu, sacerdote, lo annunciavi e lo vivevi. In comunità mi hai
aperto gli occhi e mi hai fatto capire che per essere felici bisogna imparare a
condividere. Sforzarsi di mettere in comune il più possibile: i beni materiali,
il tempo, gli ideali, le paure, la sofferenza, le passioni, la cultura,
l’entusiasmo. Perché solo facendo le cose insieme ci si sente davvero liberi,
umani, e il chicco di grano marcisce, e dà frutto, e la vita passa di mano, e
non finisce.
Mi hai fatto
riscoprire la figura del prete grazie al tuo talento da fuoriclasse nello
spezzare il pane ovunque: in chiesa, ma anche e soprattutto per strada. Nelle
scuole e ai campi scout, nei teatri e nei bassi dei transessuali, ai concerti
delle rockstar e nei centri islamici, alle riunioni degli industriali e nei
ricoveri per pazienti psichiatrici, ai dibattiti politici in televisione e allo
stadio sotto la gradinata nord, nei salotti buoni e nelle periferie
esistenziali della nostra Genova adorata, dove cercavi Gesù fra i tossici, i
portuali, le prostitute e le canzoni di De André. Eri innamorato dell’umanità e
volevi abbracciarla tutta, senza giudicare, senza escludere niente e nessuno. Avevi fame
di giustizia sociale, sei sceso in piazza migliaia di volte a cantare Bella
Ciao e a difendere i diritti dei più deboli, dei migranti, delle donne, dei
detenuti; eppure non ti sei mai rifugiato sulla torre d’avorio di certi
intellettuali snob: a te piacevano anche le parolacce, te avevi voglia anche di
parlare del Genoa col pescivendolo di via Gramsci, o di fare le ore piccole in
trattoria con un artista al termine del suo spettacolo. Anche per questo mi hai
conquistato: hai fatto del tuo essere prete non una camicia di forza ma un
passpartout, per far saltare i pregiudizi e costruire ponti fra diverse
provenienze e classi sociali. Hai lottato rimanendo sempre coerente al valore
evangelico della povertà, hai sofferto molte volte al fianco della nostra
comunità disordinata, ma alla fine ti sei anche divertito. Tanto.
Voglio
ricordarti con quel sorriso da giamburrasca che sfoggiavi quando concludevi i
tuoi “one man show” srotolando la bandiera della pace; oppure col candore di
quando battezzavi i bambini inneggiando al fiume in piena della vita, e chiamavi
l’applauso delle persone radunate in cerchio intorno all’altare. Alla fine
dell’eucarestia ci salutavi sempre dicendo: “La messa non è finita, la messa
comincia”. E infatti la nostra partita si gioca là fuori, una volta usciti
dalla chiesa, dove ci aspetta un regno di pace e di giustizia da testimoniare e
da costruire insieme. E allora forza, rimbocchiamoci le maniche, su la testa,
don Gallo siamo noi.
Tommaso Giani
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